L'analista junghiano ne parla in un'intervista alla DIRE
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 9 giu. - 'Riflettere sul tempo del morire è un modo per antagonizzare quella sotterranea negazione della morte che ci consente di avere lucida conoscenza della fine e tuttavia vivere come se la fine non esistesse o non riguardasse espressamente me. Il tempo della morte possiede valenze intrinseche: non è la stessa cosa morire a 12 anni o a novanta, morire improvvisamente o al termine di un decorso progressivo, morire al 'momento giusto' (perché ipotizzo che esista un 'momento giusto', un tempo maturo che i greci chiamavano Kairos) oppure in un momento artificiosamente forzato, sia esso assurdamente anticipato o innaturalmente protratto'.
Parla di questo il libro 'Il tempo del morire' (Edizioni Magi) curato da Claudio Widmann, psicoterapeuta, analista junghiano e docente di Teoria del simbolismo e di Tecniche dell'immaginario in varie scuole di specializzazione in Psicoterapia, intervistato dalla DIRE sull'argomento.
- Come si concilia l'ipotesi che la morte si collochi in un 'momento giusto' con gli episodi di morte accidentale, casuale? 'Per chi guarda al mondo interno ed esterno dall'ottica della psicologia del profondo (che è l'ottica della profondità e che avversa la superficialità) è difficile ragionare in termini di casualità. Il caso è la spiegazione di chi non ha una spiegazione. Da questa prospettiva è sorprendente che la morte venga spesso attribuita al caso: il contagio fortuito di una malattia, la sfortuna di una diagnosi tardiva, la fatalità di un incidente, la malasorte di un genoma a rischio. Ogni volta basterebbe appena un dettaglio per evitare la morte- continua Widmann- un esame fatto un po' prima, un ritardo nell'uscire di casa (così da non essere investiti), un intervento più risolutivo (più pronto o più coscienzioso o più esperto o più efficiente) del personale medico o della sanità nel suo insieme. Ogni volta, il momento adatto per morire è sempre un altro momento. Ma forse la psiche non è un'entità affidata all'imponderabile volubilità del caso. La psiche potrebbe essere un sistema integrato e organizzato- chiosa il professore- che coltiva un preciso progetto di esistenza unitario e coerente, che lavora a quel progetto in maniera sia conscia sia inconscia, anche se la coscienza ha una visione offuscata e lacunosa del disegno di vita e della destinazione personale. Se così fosse- precisa il professore- sarebbe sconcertante ma non sorprendente ammettere che esistono vite brevi e compiute, il cui progetto destinativo si compie in un arco temporale più ridotto rispetto ad altri. In effetti, è dato vedere adolescenti che guardano alla morte con pacata deferenza, che hanno un rapporto con il tempo diverso dai loro coetanei, i cui sogni non aprono prospettive e non proiettano in avanti, ma parlano di bilanci finali e chiudono cicli. Esiste una differenza abissale tra la fenomenologia di vite brevi e compiute e quella di altre vite, brevi ma spezzate. Quando si ha l'opportunità di gettare lo sguardo nelle profondità psichiche di vite brevi e spezzate, i sogni, gli scenari immaginativi, gli indizi che parlano dell'attività inconscia mostrano assetti psicologici completamente diversi rispetto alle prime: l'inconscio appare impegnato in processi espansivi, intento a sviluppare temi nuovi rispetto al passato, ad aprire prospettive diverse rispetto a quelle perseguite dal conscio'.
- Il tempo del morire è kairos più che kronos? 'Kronos è un tempo quantitativo, si misura con le unità di grandezza, acquista valore con l'abbondanza, si svaluta con il ridursi della quantità. Kairos- spiega lo psicologo- è un tempo qualitativo, è difficilmente misurabile ma è assolutamente preciso: è il tempo maturo, la stagione giusta, il momento adatto per fare una cosa. Eventi accessori della vita, come la vendemmia o la partenza per le ferie, hanno bisogno di collocarsi nel 'momento giusto'. E possibile che anche un evento ben più rilevate quale è la morte occupi un preciso, singolarissimo kairos'.
- Anche per le morti impreviste esiste un Kairos? 'Una morte potrebbe essere apparentemente improvvisa e imprevista e rientrare ugualmente in un disegno breve ma compiuto. Possiamo pensare ad esempio a certe morti di persone giovani che seguono un loro disegno, un loro ideale che si conclude in un evento letale. Ricordo un trentenne che si era prodigato nel corso di un incendio in cui trovò la morte- racconta Widmann- non conosco i suoi sogni, ma tutte le caratteristiche dell'incidente si mostrarono coerenti con quelle della sua personalità e tutta la struttura della sua personalità (la priorità della funzione sentimento, la propensione all'altruismo etc.) erano coerenti con quelle dell'incidente mortale. O ancora, basti pensare alle persone con fantasie di onnipotenza- precisa l'esponente del Centro italiana di psicologia analitica- che si gettano avventatamente in una situazione di pericolo e stroncano la loro vita (incidenti stradali, morti per droga, suicidi, contrazione avventata di malattie fatali). Cose che apparentemente sono accidentali possono rientrare in una pianificazione inconsapevole dell'individuo, oppure essere ascrivibili a un'inadeguata vigilanza e partecipazione della coscienza alla pianificazione globale della psiche'.
- Quando ci si rende conto che il percorso è compiuto? 'È un discorso molto complesso- risponde l'analista- esiste una fenomenologia dei sogni, non tanto premonitori, ma accompagnatori, che testimoniano l'evoluzione della psiche verso la morte. Un adolescente è in genere assorbito, a livelli coscienti e non, in dimensioni molto empiriche: fa sogni soprattutto sessuali e di relazioni. Invece i ragazzi che concludono presto la loro esistenza hanno poca prospettiva. I loro sogni si aprono a dimensioni archetipiche molto ampie, sono meno legati alla contingenza e alle pulsioni dell'Io e mostrano bilanci precoci. Il complesso dell'Io che in adolescenza è molto forte, nei giovani oncologici è invece disinvestito (come per gli anziani), il suo assetto appare in fase di ritiro e contrazione'. - Si è mai pronti per morire? 'La morte è sempre un evento imprevisto, se viviamo in un diniego strisciante della morte. Si arriva pronti quando la coscienza fa un lavoro di contatto e mantenimento con la propria reale e concreta situazione'.
- Come si fa ad essere lucidi davanti alla morte? 'Uno dei modi per restare in contatto è vivere anche la dimensione simbolica della morte. Il momento in cui finisco un libro, un articolo, una relazione non è solo un'esperienza empirica, è anche un piccolo assaggio di quello che è la morte in quanto fine assoluta. Grazie a queste valenze simboliche la morte entra nell'esperienza quotidiana della vita. E' morte simbolica ogni fine irrimediabile, ogni conclusione irreparabile; è morte simbolica ogni salto esistenziale, ogni passaggio a stati della vita radicalmente altri; è morte simbolica ogni sprofondamento nell'inconscio (a cominciare dal sonno, che il mito dice essere fratello della morte); è morte simbolica- ripete lo scrittore- ogni situazione in cui la forza dell'Io non si esprime nell'affermare se stessi, ma nel diminuire se stessi, per esempio contenendo ambizioni e narcisismi, rinunciando a conoscere tutto e accettando l'esistenza del mistero, riconoscendo i limiti della ragione e le ragioni dell'inconscio. Vivere con consapevolezza ordinarie esperienze di fine irreparabile (si tratti di una relazione affettiva o di un lavoro), passaggi esistenziali inevitabili (la fuoruscita dall'adolescenza o l'ingresso nella vecchiaia), la quotidiana convivenza con l'inconscio (sia quando comportamenti involontari risultano inopportuni e nocivi, sia quando gesti fortuiti o dimenticanze non intenzionali dischiudono opportunità impreviste), le esigenze di auto-ridimensionare l'Io (riconoscendone l'impotenza, dopo averne smascherate le illusioni di onnipotenza) significa fare ogni giorno esperienze simboliche di morte e ogni volta ricominciare in modo nuovo esperienze nuove. Forse è in questo senso che Rabbi Bunam diceva: 'Ho trascorso tutta la vita, cercando di imparare a morire''.
- L'accettazione della morte passa per l'accettazione del lutto? 'Nelle esperienze di morte ci troviamo sempre a confrontarci con gli scacchi dell'Io. L'Io è sotto scacco se, ad esempio, una donna o un uomo di cui ci si è innamorati preferisce un'altra persona, se le scarpe che amavo adesso sono sciupate. I nostri armadi sono pieni di abiti a cui siamo affezionati e che non abbiamo il coraggio di buttar via. Sono morti metaforiche anche quelle. Dietro queste esperienze- sottolinea Widmann- si cela il grandissimo problema dell'Io di rinunciare alle cose/persone/idee a cui si è affezionato: uomo, scarpa, vita, luogo. L'importanza che l'Io sappia auto ridimensionarsi è un tema enorme ed è determinante ai fini di come si vive la morte. L'Io ha preferenze, antipatie, avversioni, e non è scontato che l'inconscio incontri il progetto dell'Io. Jung dice che se nella coscienza c'è una cosa, nell'inconscio c'è il contrario. L'Io deve quindi imparare a disaffezionarsi alle cose cui è attaccato. Deve imparare a riconoscere che c'è un senso anche al di fuori dei disegni coscienti, che il suo progetto è solo una parte della nostra esistenza. Questo è un primo passo per accettare anche di perdere qualcosa a cui teniamo, per ipotizzare che ci sia un senso diverso da quello di cui ho coscienza, che una parte sconosciuta di me stia lavorando a mia insaputa, ma non contro me stesso'.
- Come ci trasforma la morte degli altri? 'La morte degli altri è un'esperienza che, attraverso elementari processi d'identificazione e di proiezione, sollecita la coscienza della morte e la pone direttamente a confronto con la morte. L'empiria di un decesso, la vista di un cadavere, la notizia di una persona inaspettatamente scomparsa ci strappa prepotentemente dal limbo della negazione che tiene sotto soglia la consapevolezza della morte e ci mette dinanzi alla potenza di questo evento. La morte ha tutte le caratteristiche dell'archetipico: è strutturale, universale, transpersonale e soprattutto ha un impatto numinoso sulla coscienza. Si presenta cioè come qualcosa di enorme e sconcertante, contemporaneamente attraente e repellente, affascinante e terribile. Incolonnamenti autostradali lunghi svariati chilometri e rallentamenti di ore causati dalla curiosità per un incidente mortale verificatosi sulla carreggiata opposta- prosegue lo psicoterapeuta- dovrebbero fare riflettere. La morte esercita un magnetismo attrattivo che cattura sguardi, curiosità, fantasie; un potere attrattivo proporzionale al potere repulsivo che induce a distogliere lo sguardo, a scacciare il pensiero, a provare fastidio'. La morte degli altri 'ci accosta al mistero numinoso della morte in sé, all'archetipo della fine. La coscienza può rimanerne inquietata, ritornare frettolosamente al diniego abituale, risospingere l'idea della morte sotto soglia e dissociarsi da un evento che - ciononostante - interessa l'individuo nel suo insieme e che appartiene al suo percorso esistenziale. Oppure può costruire progressivamente la consapevolezza che l'individualità è in costante evoluzione, che l'esistenza non è uno stato, ma un processo e che questo processo include anche la fine. In questa prospettiva la morte non è più una faccenda delegata (e relegata) all'inconscio, vissuta come un accadimento esterno che succede e di cui l'Io nulla sa né vuole sapere, ma un momento costruito dall'individualità nel suo insieme, cui si giunge attraverso le oscure trame dell'inconscio, con lucida coscienza e serena partecipazione del conscio. Da evento inevitabile contro cui l'individuo non può fare nulla, la morte diventa -allora- parte di un processo cui partecipa anche la coscienza. Nel Medioevo ciò si chiamava ars moriendi. Non si tratta di necrofilia né di decadentismo, la consapevolezza della morte non è necessariamente inquietante e luttuosa- conclude Widmann- i Romani ne coltivavano la memoria (memento mori) per assaporare con maggiore intensità la vita'.
(Wel/ Dire)