(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 14 apr. - Big Eyes, il nuovo, non esaltante film di Tim Burton, racconta la vera storia dei coniugi Keane, Walter e Margaret. Negli anni Sessanta i dipinti firmati Keane, che ritraevano bambini tristi e solitari dagli occhi sproporzionatamente grandi, ottennero un clamoroso successo: di cui però, per oltre dieci anni, beneficiò il solo Walter, mentre a dipingerli era, in segreto, la moglie. Dopo il loro divorzio, la donna lo trascinò in tribunale per far emergere la verità e dare a Margaret ciò che era di Margaret.
Walter Keane era insomma un mitomane e un narcisista, un uomo ossessionato dall'idea di essere quello che non era (un artista) e dalla voglia di far credere al mondo che lo fosse: nelle mani di Tim Burton, diventa l'ennesimo freak raccontato dal regista, ma uno sgradevole, grottesco e caricaturale. Come grotteschi e caricaturali siamo tutti noi quando cerchiamo di apparire al mondo ciò che non siamo, quando vogliamo illudere noi stessi sulla nostra identità e la nostra natura. Keane aveva già capito, più di cinquant'anni fa, che propagandare un'immagine di sé è operazione eminentemente mediatica: per farlo, per alimentare l'idea di ciò che non era, usava la stampa e la televisione (e la moglie usò la radio per la prima pubblica denuncia).
Lo stesso fanno i protagonisti di un film invece straordinario, L'amore bugiardo, brutto titolo italiano del Gone Girl diretto da David Fincher. Racconto raggelante delle dinamiche crudeli e perverse dei rapporti di coppia, sberleffo cinico e pessimista sull'amore, è un thriller del quale non si può parlare molto senza svelare troppo della trama, ma che racconta dei personaggi che utilizzano (volutamente o loro malgrado) i media e la collettività per raccontare le loro verità e le loro menzogne, per dare al mondo quell'immagine di sé che desiderano. E che al tempo stesso mette di fronte all'impossibilità di rinunciare alla maschera di sé poiché sotto la maschera non c'è nulla, e il Vero, se non inconoscibile, di certo è irraggiungibile.
Non c'è altra conclusione possibile, forse, al tempo dei social network, maschera privilegiata di moltissimi, luogo d'elezione di una mitomania incistata nella mente contemporanea, vetrina di sé e di quel che si vuole o vorrebbe essere: luoghi non più virtuali ma realissimi, che riducono il reale pallida e virtuale imitazione di sé stesso.
Nell'era di internet, degli smartphone, dei video e dei social, la nostra identità autoimposta diventa la nostra prigione: lo racconta un B-Movie come Open Windows, storia del fan n.1 di una stellina del cinema horror (fatta, con mossa geniale, interpretare alla star del porno Sasha Grey) costretto a diventare suo carnefice virtuale da un sadico webmaster che l'ha rapita e che gliela rende visibile in ogni momento. Il futuro che stiamo vivendo è quello dove la vera schiavitù è quella di sé stessi e della propria (?) identità, e la tortura (come dimostrano anche i video di decapitazione provenienti da fanatici e terroristi che conoscono bene l'Occidente) è rimanere visibili sempre e dovunque e a qualunque costo, agli altri e al sé stessi che gli altri vogliono vedere, e al tempo stesso non esserlo.
Perché più guardi e meno vedi, e più mostri e meno sei, più il tuo guardare/mostrarti è pornografico, meno è erotico e stimolante; perché nel gioco di specchi e controcampi delle immagini, la verità viene liquefatta e dispersa.
In questo panorama non certo rassicurante, raccontato dal cinema di questi mesi, ecco arrivare, serafico ed essenziale, un maestro come Woody Allen. Magic in the Moonlight, il suo ultimo film, notevolissimo, smonta con sbalorditiva semplicità tutta l'impalcatura di sovrastrutture e maschere dietro la quale ci nascondiamo.
Attraverso la storiella basilare di un illusionista borioso che non solo non riesce a smascherare una sedicente medium, ma s'innamora di lei nonostante rappresenti tutto quel che si dice non volere in una donna, Allen ci invita con saggia leggerezza ad abbracciare nuovamente ciò che è vero, la vita e l'amore; a fregarcene della nostra immagine pubblica (il protagonista sarà sbeffeggiato dalla stampa, e non se ne cura) e soprattutto a sbarazzarci di quel pesante bagaglio superfluo che c'ingombra e ci rende goffi, lenti e un po' ridicoli: dalle illusioni che ci imponiamo da soli su chi siamo, e cosa vogliamo, e cosa dobbiamo fare, all'immagine di noi che vogliamo dare agli altri, alla rigida miopia dei nostri ideologismi.
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http://www.ordinepsicologilazio.it/blog/cinematica-mente/lo-schermo-e-lo-specchio-dellidentita-e-dellimmagine-di-se-raccontate-attraverso-quattro-film/ (Wel/ Dire)