(DIRE) Roma, 7 feb. - Per stabilire la responsabilita' penale di ciascun medico che fa parte di un'equipe nel caso di esito infausto di un trattamento sanitario, secondo la Cassazione (sentenza 2354/2018) e' necessario verificare la condotta ogni sanitario nel caso, altrimenti si passerebbe dalla responsabilita' soggettiva a quella oggettiva.
IL FATTO Un medico e' stato imputato di omicidio colposo per l'accusa, assieme a un altro sanitario, di non aver richiesto una Tac di controllo. Avrebbe in questo modo sottovalutato un nuovo sanguinamento del paziente che si e' rivelato poi essere la causa prima del decesso di questo.
LA SENTENZA La Corte si sofferma nel suo giudizio sul principio di affidamento negli interventi affidati a piu' medici, anche se con l'analisi di atti medici successivi. Il principio vale se una pluralita' di soggetti opera a tutela di uno stesso bene giuridico sulla base di precisi doveri suddivisi tra loro. Una situazione in cui e' opportuno che ogni attore abbia la possibilita' di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalita' degli altri. Il principio di affidamento, quindi, e' "limite all'obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia". Ma va "contemperato con l'obbligo di garanzia verso il paziente che e' a carico ... di tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all'intervento terapeutico" perche', se ci si limitasse alla sua applicazione, ogni operatore si sentirebbe legittimato a disinteressarsi del tutto dell'operato altrui, con tutti i rischi che ne conseguono, specie in ragione dei difetti di coordinamento tra i medici.
La Cassazione quindi stabilisce che il riconoscimento della responsabilita' per errore medico altrui richiede la verifica del ruolo svolto da ciascun sanitario dell'equipe. Non e' consentito, invece, ritenere a priori l'esistenza di una responsabilita' del gruppo, in base a un ragionamento fondato su principi non dimostrati e, quindi, arbitrari.
"L'iter motivazionale e' - spiega la sentenza - coerente con il principio, correttamente richiamato dal giudice di merito secondo il quale nella ipotesi, come quella in esame, in cui il trattamento sanitario affidato ad una pluralita' di medici, sia pure in forma diacronica attraverso atti medici successivi, sfoci in un esito infausto, cio' che rileva, ai fini della individuazione della penale responsabilita' di ciascuno di essi, e' la verifica della incidenza della condotta di ciascuno sull'evento lesivo, sconfinando altrimenti la valutazione nel campo della responsabilita' oggettiva. In tale situazione vige il principio di affidamento, che trova applicazione in ogni situazione in cui una pluralita' di soggetti si trovi ad operare a tutela di un medesimo bene giuridico sulla base di precisi doveri suddivisi tra loro. In questa situazione e' opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilita' di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalita' degli altri, della cui condotta colposa, poi, non puo' essere chiamato di norma a rispondere. Cosi' configurato il principio di affidamento funge da limite all'obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia Si tratta di un tema molto delicato perche' tale principio va contemperato con l'obbligo di garanzia verso il paziente che e' a carico del sanitario (di tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all'intervento terapeutico). E' evidente infatti che la mera applicazione del principio di affidamento consentirebbe ad ogni operatore di disinteressarsi completamente dell'operato altrui, con i conseguenti rischi legati a possibili difetti di coordinamento tra i vari operatori. Il riconoscimento della responsabilita' per l'errore altrui non e', conseguentemente, illimitato e, per quanto qui rileva, richiede la verifica del ruolo svolto da ciascun medico dell'equipe, non essendo consentito ritenere una responsabilita' di gruppo in base a un ragionamento aprioristico. Tale verifica, per quanto sopra esposto in fatto, e' stata compiuta dalla Corte di appello e la sentenza non merita censura".
Infine la Corte ha escluso la rilevanza nel caso in cui il medico sottoponga il paziente stesso a un trattamento chirurgico diverso da quello "in relazione al quale era stato prestato il consenso informato e tale intervento, eseguito correttamente, si sia concluso con esito fausto, nel senso che ne e' derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta e' priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo del reato di lesioni volontarie, che sotto quello del reato di violenza privata".
Secondo la Corte "il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente. Con la importante precisazione che non e' di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, perche' l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza: infatti, l'acquisizione del consenso non e' preordinata (in linea generale) a evitare fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), ma a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale (art. 32, comma 2)".
Quindi la decisione "presenta un vizio che ne impone l'annullamento con specifico riguardo ai profili civilistici: il giudice di appello, infatti, pur avendo derubricato l'originaria contestazione, e in tale prospettiva comunque limitato l'ambito dei profili di colpa addebitati infine all'imputato, si e' limitata a confermare le statuizioni civilistiche adottate in primo grado nei confronti dell'imputato. E' evidente l'erroneita' di tale determinazione, non solo non supportata da adeguata spiegazione, ma comunque concettualmente incompatibile con l'evidenziata derubricazione".
(Wel/ Dire)