Roma, 11 gen. - Articolo tratto da "Il Sole 24 Ore - Sanità". In tema di responsabilità medica, le linee guida - provenienti da fonti autorevoli, conformi alle regole della miglior scienza medica e non ispirate a esclusiva logica di economicità - possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico. Esse, tuttavia, avuto riguardo all'esercizio dell'attività medica che sfugge a regole rigorose e predeterminate, non possono assurgere al rango di fonti di regole cautelari codificate, rientranti nel paradigma dell'articolo 43 del codice penale (leggi, regolamenti, ordini o discipline), non essendo né tassative né vincolanti e, comunque, non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la migliore soluzione per il paziente.
Con questa motivazione, la Cassazione penale, sezione V, con sentenza n. 46454/2015, depositata il 23 novembre, ha respinto il ricorso di una ginecologa, confermando la sentenza di condanna per omicidio colposo disposta dalla Corte d'appello di Brescia. Il primo caso. Il 2 luglio 2010 verso le 13:50, una ventisettenne e incinta alla 38a settimana, venne accompagnata dal marito presso il Pronto soccorso, accusando forti dolori addominali e ricoverata presso il reparto Ostetricia-ginecologia con diagnosi di "prodromi di travaglio di parto in 2a gravida (...) pregressa miomectomia (...) pressione arteriosa borderline". La dottoressa, misurata la pressione arteriosa, chiese al marito di procurarsi la documentazione clinica relativa all'operazione di miomectomia multipla che la paziente aveva subìto presso la stessa clinica in quanto non era in grado di procurarsela da sola. In attesa, applicò il cardiotocografo (dalle ore 13:57 alle 14:45 e poi dalle ore 18:16 alle 19:25).
Alle 20 smontò dal turno e la lasciò ad altra dottoressa (anch'essa condannata, ma non parte del processo). La donna, rimase ricoverata in reparto e i dolori non cessarono. Verso le 22 venne rinvenuta priva di sensi e quindi immediatamente trasferita in chirurgia per il parto cesareo di emergenza.
L'intervento rivelò la già avvenuta lacerazione dell'utero e la conseguente morte del feto per asfissia a seguito del distacco della placenta e perdita, conseguente, della capacità di procreare.
Il medico si difese, sostenendo che le linee guida del ministero della Salute sul parto non contemplavano il caso di pregressa miomectomia e sosteneva di avere affrontato una situazione solo prodromica al travaglio e, quindi non aveva alcuna urgenza di scegliere tra parto naturale e taglio cesareo. Ragioni difensive bocciate dalla Corte di cassazione, secondo cui se è vero che le linee guida nazionali non considerano la miomectomia come ragione elettiva del parto cesareo, il rischio è del tutto noto nella scienza medica, tanto da presentarsi come uno dei fattori usualmente da considerare, all'esito di adeguato approfondimento, nella prospettiva di una possibile esclusione del parto naturale. Non vi è dubbio che, nel caso concreto, l'esito di quella comparazione tra il rischio del parto cesareo e quello, più alto del parto naturale, doveva orientare, in applicazione di un evidente principio di precauzione, verso l'immediata esecuzione del parto cesareo: l'unica soluzione infatti che, con certezza, avrebbe salvato il feto e del tutto verosimilmente evitato alla paziente la perdita della capacità di procreare.
Il secondo caso. La responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo di acquisire il consenso informato discende dal solo fatto della condotta omissiva. A nulla vale sostenere che le linee guida o la valutazione economica non prevedevano l'opportunità di procedere alla prescrizione di un determinato esame. Secondo i giudici della Corte di cassazione civile, sezione III, 2 7 novembre 2015, n. 2422, in riforma della sentenza del giudice di merito di Mantova che aveva dato ragione al ginecologo, l'inadempimento dell'obbligo di informazione assume autonomo rilievo nel rapporto contrattuale, a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento sanitario eseguito o dalla prova che il danneggiato avrebbe rifiutato l'intervento se adeguatamente informato (così, da ultimo, Cassazione, 14642/15).
Screening pre-natali: mancata informazione alla paziente I coniugi citarono in giudizio il ginecologo per sentirlo condannare al risarcimento dei danni, che assumevano essere loro derivati per la mancata informazione circa le indagini prenatali da effettuarsi, ovvero comunque effettuabili, e per la mancata diagnosi delle gravi patologie da cui era affetto il feto, partorito al termine della gravidanza e per le loro condizioni non era stata riconosciuta dagli stessi.
Si costituiva il convenuto, eccependo di avere informato la paziente che per essere certi dell'assenza di malformazioni del feto, era necessario sottoporsi a esami invasivi che erano considerati non appropriati per l'età della paziente e comportanti un rischio abortivo. Inoltre il costo era a carico della paziente. Di conseguenza la paziente aveva deciso di non farli. In ragione all'addebito di non aver diagnosticato le malformazioni del feto, omettendo di prescrivere l'amniocentesi o l'analisi dei villi coriali, impedendo perciò l'esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza, la corte di merito aveva sposato quanto emerso dalla Ctu, secondo la quale l'indagine sul cariotipo, unico metodo per una diagnosi prenatale della sindrome di Down, non era consigliata nel caso specifico, stante la giovane età della madre, il suo basso rischio per patologie cromosomiche fetali e l'esito di altre indagini, effettuate nel corso della gravidanza con conseguente insussistenza di errori tecnico-professionali imputabili al ginecologo.
La Cassazione, ribaltando le sentenze di merito, ha accolto, invece, le ragioni della paziente ritenendo errata la prospettazione. Il diritto all'autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute Vanno trattate diversamente le fattispecie in cui il danneggiato lamenti la lesione del primo e/o la lesione del secondo (cfr. da ultimo, Cassazione, 2854/2015).
A maggior ragione, affermano i giudici, le fattispecie, come quella in esame, in cui si lamenti che dalla lesione del diritto all'autodeterminazione in tema di scelte diagnostiche, sia conseguita la lesione di altro diritto, quale quello di interrompere volontariamente la gravidanza, o di autodeterminarsi in merito alla scelta di procedere o meno a siffatta interruzione è il sanitario, cui incombe l'obbligo di informare il paziente circa i possibili accertamenti diagnostici utili o necessari in una determinata situazione e circa i rischi e i vantaggi a ciascuno connessi, a dover fornire la prova di avere adempiuto a tale obbligo, restando a suo carico, in caso contrario, la responsabilità per lesione del diritto del paziente all'autodeterminazione anche in merito alle scelte diagnostiche.
In ragione di quanto sopra, la Corte ha rinviato alla Corte d'appello per verificare l'esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di specie sempre che il ginecologo abbia contestato l'esistenza di questa sua volontà negli atti processuali.
(Wel/Dire)