Roma, 12 gen. - L'omesso esame da parte del giudice di merito di una prova ritualmente raccolta nel corso dell'istruttoria, non si configura astrattamente e necessariamente come un vizio di motivazione della sentenza e non è di per sé sufficiente a ritenere la motivazione viziata. Perché sia ravvisabile il vizio di motivazione per omesso esame di una prova deve configurarsi un rapporto di causalità tra la circostanza trascurata e la soluzione giuridica della controversia e deve altresì ritenersi che la prova trascurata sia decisiva in quanto, se presa effettivamente in considerazione, avrebbe infirmato con certezza le altre prove.
Nel caso di specie, la sentenza del giudice di merito che non riconosce alcuna responsabilità a carico dei sanitari per il suicidio del paziente, viene giudicata esente da censure in quanto la malattia del paziente non era considerata tra quelle clinicamente pericolose, non vi erano gli estremi per un trattamento sanitario obbligatorio e le pregresse manifestazioni di volontà suicida del paziente, in quanto ambivalenti, non erano tali da condurre i sanitari ad una diversa scelta medica.
Pertanto, poiché alla luce dei suddetti principi l'omessa considerazione di una prova non avrebbe condotto con certezza ad un esito diverso della causa, il ricorso per cassazione viene respinto.
Il caso. Con atto di citazione promosso innanzi al Tribunale di Milano, i germani di Tizio, affetto da malattia psichiatrica, citavano in giudizio la competente USL e i suoi medici, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al suicidio del di loro germano, sulla scorta del fatto che, seppure in presenza di chiari sintomi di intenzioni suicide, i sanitari non avevano sottoposto il paziente al trattamento sanitario obbligatorio né avevano adottato misure di sorveglianza in regime di day hospital. Il Tribunale di Milano rigettò la domanda e i soccombenti proposero rituale appello.
La Corte d'Appello di Milano, nel rigettare il ricorso, confermava la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, i germani di Tizio proponevano ricorso per cassazione sostenendo, tra le altre, che la sentenza impugnata sarebbe stata inficiata da un vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 n. 5, c.p.c., in quanto i giudici del gravame avrebbero trascurato una fonte di prova rilevante. Detta fonte sarebbe stata rappresentata da una lettera inviata da uno dei fratelli del paziente alcun giorni prima del gesto estremo con la quale si informavano i sanitari che Tizio aveva tentato due volte di suicidarsi e si invitavano i destinatari a non dimettere il paziente.
I motivi della decisione. La sentenza in commento analizza in modo rigoroso la questione relativa alla sussistenza o meno del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 in relazione all'omesso esame di fonti di prova. In subiecta materia gli Ermellini ribadiscono i tre principi che la stessa Suprema Corte, con giurisprudenza costante e conforme, ha enucleato perché la suddetta omissione possa costituire un vizio di motivazione.
In via principale si afferma che l'omesso esame di una prova non è di per sé sufficiente a viziare la motivazione. In secondo luogo il vizio di motivazione potrà reputarsi sussistente solo laddove sia ravvisabile un rapporto di causalità tra la circostanza che si reputa essere stata trascurata e la soluzione giuridica della lite, tale da addivenire alla conclusione che, se la circostanza fosse stata esaminata, si sarebbe addivenuti ad una diversa conclusione della controversia. Infine, terzo principio generale è che, la prova trascurata dal giudice, possa dirsi decisiva solo nel caso in cui, se fosse stata presa in considerazione, avrebbe con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, inficiato le altre prove.
La sentenza precisa di seguito che il vaglio di legittimità è rivolto unicamente a stabilire se la motivazione adottata dal giudice di merito sia o meno insufficiente e se, l'eventuale esame di una prova che si reputa essere stata trascurata, avrebbe condotto, con ragionevole certezza, ad un esito diverso della causa. Resta difatti escluso che la Corte di Cassazione possa riesaminare il merito della vicenda processuale stabilendo se il giudice a quo abbia correttamente o meno accertato i fatti.
Orbene, prosegue la sentenza in parola, applicando i prefati principi alla fattispecie in esame, deve essere escluso il vizio di motivazione in quanto, la circostanza non valutata dal giudice a quo, ossia la lettera inviata dal fratello di Tizio ai sanitari con la quale si informavano delle intenzioni suicida e dell'opportunità di non dimettere il paziente, se fosse stata esaminata, non avrebbe condotto, con certezza, ad una diversa pronuncia. E questo in quanto, la Corte d'Appello aveva comunque valutato il punto di fatto rappresentato dalle manifestazioni di autolesionismo del paziente e le aveva reputate comunque non idonee a fondare una responsabilità da parte dei convenuti. La Corte di Cassazione, dunque, rigetta il ricorso. Sul punto di spese dispone la loro integrale compensazione tenuto conto della delicatezza dell'oggetto dell'accertamento.
Osservazioni conclusive. La denuncia di un "error in iudicando", ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., postula che il giudice, dopo aver percepito un fatto di causa nei termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo in modo che l'omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico. Tale vizio consente alla parte di chiedere (e al giudice di legittimità di effettuare) una verifica in ordine alla logicità della motivazione, sulla base del solo esame della sentenza impugnata.
Va ribadito che il compito di valutare le prove e di controllarne l'attendibilità e la concludenza, nonché di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze processuali quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, spetta in via esclusiva al giudice del merito. Va precisato che nessuna norma richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite nel corso del giudizio; onere del giudice di merito è, piuttosto, quello di fornire una motivazione logica della decisione, evidenziando le prove ritenute idonee a giustificare il suo convincimento. Al giudice di legittimità può essere rimesso esclusivamente il potere di verificare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito. In tale ultima ipotesi, difatti, il motivo di ricorso si tradurrebbe in una domanda di revisione delle valutazioni del giudice di merito finalizzata a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, fattispecie inammissibile nel sede di cassazione.
Si segnala che, a seguito della delle modifiche introdotte nel codice di rito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, ai sensi dell'art. 348 ter, la proponibilità del ricorso per cassazione è stata limitata ai motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360, qualora l'impugnazione sia proposta avverso una sentenza d'appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, interenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata.
Infine, circa il merito della fattispecie, si ricorda come, in passato, salvo il caso in cui si ravvisassero gli estremi per un TSO, la giurisprudenza fosse attestata nel senso di non ascrivere al medico-psichiatra una posizione di garanzia nei confronti del paziente in funzione neutralizzatrice del pericolo di atti autolesionistici. Questo, in quanto si riteneva che la deliberazione di uccidersi costituisse, seppure in senso estremo, un gesto di libertà e, per tale ragione, non poteva porsi a carico del medico un obbligo di impedirne il verificarsi.
Attualmente la posizione della giurisprudenza è stata completamente ribaltata e, nei complessi limiti della prevedibilità, viene riconosciuto in capo al medico, anche l'obbligo di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesionistiche.
(Cds/ Dire)