(DIRE) Roma, 9 dic. - La donna che perde il diritto di ricorrere all'aborto volontario a causa della mancata informazione del medico sulle condizioni del feto, deve dimostrare che la gestazione ha rappresentato un grave pericolo per la sua salute psico-fisica. Solo provando che si trovava nella condizione, prevista dalla legge (194/1978) per interrompere la gravidanza, oltre il 90° giorno avrà diritto al cosiddetto risarcimento da nascita indesiderata. Il Tribunale di Roma, con la sentenza depositata l'11 novembre 2015 (giudice Pannunzio), respinge la domanda di risarcimento fatta in seguito alla nascita di una bambina con gravi malformazioni cardiache. Secondo il Tribunale la madre non aveva dimostrato che se fosse stata informata delle malformazioni congenite del nascituro avrebbe scelto di abortire, nè il suo disturbo dell'adattamento con ansia di lieve entità - in virtù del quale gli era stato riconosciuto un danno biologico pari al 7% - era tale da integrare quel grave rischio per la salute imposto dalla norma.
Il giudice ribadisce che, in tema di risarcimento del danno da negligenza professionale medica in caso di una insufficiente o del tutto assente informazione sulla presenza di malformazioni fetali, l'onere probatorio incombe sulla madre e non sul professionista che non è tenuto a dimostrare "la probabile o certa volontà abortiva della gestante". Il Tribunale di Roma cita numerosi precedenti della Cassazione in linea con la scelta fatta, sottolineando che "una diversa distribuzione degli onori probatori trasformerebbe il giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa collegata, nella sostanza al solo verificarsi dell'evento di danno conseguente all'inadempimento del medico". Tuttavia gli orientamenti della Cassazione sul punto non sono affatto consolidati. La vicenda esaminata dal Tribunale di Roma si inserisce, infatti, nel solco di una corposa giurisprudenza sul danno da nascita indesiderata che ha indotto, a causa degli orientamenti contrastanti, a chiamare in causa le Sezioni unite (ordinanza interlocutoria n.3569/2015 ). Due le posizioni sul tema della prova. La tesi meno restrittiva abbraccia la teoria del "più probabile che non", in base alla quale si propende a pensare che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza se correttamente informata.
Secondo l'indirizzo più rigido, in assenza di una preventiva, inequivocabile ed espressa dichiarazione di volontà da parte della donna di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, il giudice dovrà valutare caso per caso. La parte attrice dovrà dunque fornire ulteriori elementi, che non siano la sola manifestazione di intenti: un accertamento che "va condotto con un giudizio ex ante". Con l'ordinanza di rinvio si chiede al collegio di chiarire i dubbi anche in merito alla legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno. Un contrasto ancora più accentuato che si gioca sull'esistenza di un diritto a non nascere o a nascere sano.
Articolo tratto da Sanità 24 (Wel/ Dire)