(DIRE - Notiziario Minori) Roma, 9 nov. - Sono circa 80 gli afgani che vivono nella "Buca", ovvero nelle fondamenta di una palazzina a 10 metri sotto il livello della strada, in via Capitan Bavastro, a due passi dalla stazione Ostiense. È questo il frutto dell'ultimo sgombero della Polizia municipale capitolina che ha "spostato" nuovamente il problema dei profughi afgani 400 metri piu' indietro dello snodo ferroviario. Dal 23 ottobre, data dell'ultimo sgombero il Medu, Medici per i diritti umani, che da anni offre un supporto medico e sanitario a tutti coloro che vivono presso la stazione Ostiense, ha deciso di presidiare h24 la "Buca" per scongiurare l'ennesimo sgombero, promesso a breve. Solo giovedi' 5 novembre, l'assessorato alle Politiche sociale del comune capitolino si e' impegnato a trasferire i profughi afgani nelle strutture adibite all'accoglienza per l'emergenza freddo e a fare finalmente entrare 55 afgani gia' in possesso dello status di rifugiato all'interno nei centri di accoglienza per i rifugiati e i richiedenti asilo. Ad oggi i profughi afgani vivono pero' ancora in una situazione igienico sanitaria disastrosa: nella "Buca" manca l'acqua, c'e' molto umido e le baracche sono "costruite" con della plastica su strutture di legno riparate da coperte. Bancali aiutano ad isolare un po' da terreno fangoso e pieno di sassi, per i piu' fortunati ci sono alcune tende da campeggio. Un piccolo fuoco ricavato da legni di infissi vecchi brucia dentro una grossa lattina arrugginita e tagliata in un lato. È questo il riscaldamento dei rifugiati afgani. Nel campo ci sono solo uomini: per una donna e' praticamente impossibile lasciare l'Afghanistan. L'eta' media dei rifugiati e' di 24-25 anni, tutti sono portatori di diritti fondamentali ben definiti dalle convenzioni internazionali e dalla stessa Costituzione italiana e titolari di protezione internazionale. Tra di loro circa un quarto e' minorenne. La vita nella "Buca" e' piuttosto monotona: alcuni afgani non possono lavorare perche' non hanno ancora avuto l'ok della Commissione che disciplina e valuta i dossier istruiti sulla base di un lungo iter investigativo i singoli casi; altri invece, pur in possesso di un permesso di soggiorno di tre anni e del beneficio della protezione internazionale, non trovano lavoro. Non lo trovano, racconta Jamil, che ha lasciato a casa una moglie e quattro figli, "perche' non abbiamo una dimora dignitosa, ci dicono che non possiamo presentarci a lavoro sporchi, ma non abbiamo acqua per lavarci, ne' una casa". E cosi' non hanno un'abitazione perche' l'ultima in cui hanno vissuto era in Afghanistan e non hanno lavoro perche' non possono garantire un domicilio. "Come potremmo?- si domanda Marjan, un ragazzo 22enne di Kandahar- non possiamo avere l'una senza l'altro: no house, no job". La situazione pero' peggiora ogni giorno. Per Dorani, da 4 mesi con le "carte in regola" per lavorare, la speranza di ricongiungersi ai suoi familiari e' remota: "Ho due bambini nella mia citta' natale, vorrei tanto che potessero venire qui- spiega- ma senza lavoro non posso prendere un'abitazione per accoglierli. Intanto pero' mi sto ammalando, ho sempre male alla testa e disturbi alla pancia". Gli afgani fuggono dalla guerra, ma fuggono anche dai talebani e dalla coscrizione obbligatoria: "Mi volevano per combattere- conclude Jamil- ma sono scappato. Non volevo combattere per loro". (Wel/ Dire)