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Sudafrica, Francesca Bartellini: “Con Desmond Tutu fu incontro del destino”

La regista del documentario 'Ubuntu': “L’Europa ha perso quel senso di perdono”

Pubblicato:30-12-2021 12:51
Ultimo aggiornamento:30-12-2021 12:57

Desmond Tutu
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ROMA – “Quando decisi di incontrare Desmond Tutu, nel 1998, nel pieno del processo di Riconciliazione nazionale del post-apartheid, fu perché avevo bisogno di guardare da vicino al modello tutto sudafricano di perdono. Il mondo intero aveva gli occhi puntati su quel Paese perché non si era mai vista ‘in diretta’ un paese che attuava il proprio processo di transizione democratica. E fu un incontro del destino”. Francesca Bartellini è scrittrice, attrice e regista con una lunga carriera di successi sia in Italia che all’estero. L’agenzia Dire la raggiunge telefonicamente per parlare di un suo lavoro in particolare: ‘Ubuntu: Note sul perdono’, prodotto nel 2000 da Les films d’ici, Rai 3 e l’Unesco, e in collaborazione con la Fondazione per i diritti umani ‘Leopold mayer’ di Parigi.

LEADER NELLA LOTTA ALL’APARTHEID

Una pellicola interessante, che racchiude un dialogo con Desmond Tutu, l’arcivescovo sudafricano leader nella lotta all’apartheid scomparso il 26 dicembre. Il motore di questo lavoro è una vicenda familiare della regista, che affonda le sue radici molto più lontano, negli anni della seconda guerra mondiale e della resistenza partigiana, e che ha portato Francesca Bartellini a confrontare i valori e i principi europei con quelli africani e poi, a sorpresa, a riscoprire un po’ di Sudafrica nella terra d’origine dei nonni.


Quando Bartellini decise di realizzare ‘Ubuntu’, Nelson Mandela era il primo presidente di colore del Sudafrica libero dall’apartheid. Dopo 27 anni trascorsi in carcere per il suo attivismo, Madiba si dedicò a ricostruire una nazione piegata da decenni di rancori e sofferenze e scelse Tutu a capo della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Trc), un tribunale ideato per superare il passato. Nei suoi anni di attività, la corte ascoltò oltre 22.000 testimonianze di abusi, sequestri, torture e persino uccisioni commesse in larga parte da persone di pelle bianca sulla popolazione nativa africana. “Dopo aver sostenuto per anni il movimento contro la segregazione razziale- dice Bartellini- ora Tutu si trovava a gestire un procedimento unico al mondo. Il tribunale ascoltava le denunce delle vittime, ma anche i responsabili che, spontaneamente o se convocati, potevano presentarsi e fare ammenda dei loro crimini pubblicamente. Questo procedimento combinava il senso laico del perdono, attraverso l’amnistia ottenuta da un organo della magistratura, con quello religioso derivante sia dal cristianesimo protestante che dalla spiritualità e dalla cultura africana più profonda. E c’erano ogni giorno giornalisti e telecamere a riprendere queste scene e a chiedere interviste a Tutu. Io decisi di andare, avevo bisogno di capire”.

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UNA STORIA DI FAMIGLIA

La famiglia Bartellini ha una storia significativa: Ermanno Bartellini – nonno della regista Francesca Bartellini – fu un noto antifascista, tra i fondatori del Partito socialista italiano di unità proletaria. Catturato a Milano e deportato nel campo tedesco di Dachau nel 1944, morì otto mesi dopo. Questo non prima però di essere risucito a fuggire con dei compagni. Ma quella fuga rocambolesca fu vana: il sacerdote che in un primo momento gli aveva aperto le porte offrendogli ospitalità, il giorno seguente venne preso dal panico e per timore di essere arrestato dai nazisti, chiese al gruppo di andare via. Ermanno Bartellini e i compagni vennero individuati dai tedeschi eriportati nel campo. Dopo qualche anno, “quel prete si pagò il viaggio– racconta ancora la nipote del partigiano- e venne in Italia per chiedere perdono alla mia famiglia. Si sentiva responsabile della morte di mio nonno“.

Una storia che spinge Francesca Bartellini a ragionare sul tema del perdono, anche come processo collettivo nella società Europea. Da qui l’idea di incontrare l’arcivescovo sudafricano: “Fissai un appuntamento per telefono” spiega, “e dopo tre mesi ero lì. Gli raccontai la mia storia e gli spiegai il mio desiderio di imparare qualcosa dall’incredibile vicenda sudafricana che stava catturando l’attenzione del mondo. Tutu mi accolse nel suo ufficio e restammo un’ora a parlare, nonostante a quei tempi tutti volessero intervistarlo. Il nostro non fu un dialogo giornalistico- aggiunge Francesca Bartellini- lui aveva capito la mia storia e empatizzò con me. Fu un vero scambio.
Rimasi affascinata dalla sua statura morale”.

L’ESSERE UMANO C’È PERCHÉ ESISTE L’ALTRO

La regista, che da allora considera il Sudafrica “la mia seconda casa”, comprese che “Tutu fu capace di tenere insieme l’aspetto laico e spirituale nel lavoro del tribunale. Fu come un modo per ‘purificare’ la terra dal sangue versato. Realizzai che forse in Europa avevamo perso questa capacità a causa del nostro modo di ragionare. Ad esempio, concepiamo l’individuo come un essere unico, indipendente dagli altri, mentre in Africa non è così: l’essere umano c’è perché esiste l’altro. E’ una concezione che aiuta a capire il concetto di ‘ubuntu’, che potremmo tradurre con ‘grande generosità’. Anche il modo di perdonare l’altro quindi è diverso”.

L’uscita del documentario fu un successo e dopo ventun anni viene ancora viene proiettato in occasione di festival e giornate commemorative: “Credo che il suo messaggio torni utile soprattutto oggi”, dice la sua autrice, “a partire dal fatto che ribalta gli stereotipi sugli africani: la retorica sui flussi migratori spinge a pensare che gli africani non abbiano nulla e debbano invece imparare tutto da noi, ma non è così. I popoli africani sono dignitosi, vogliosi di condividere le loro conoscenze e perfettamente in grado di costruire il proprio futuro”.

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La scomparsa di Desmond Tutu quindi “non solo lascia un grande vuoto, ma ci chiama a lavorare per far sì che il suo esempio non vada perso”. Un dovere che Bartellini sente ancora più profondamente dopo l’ultima “sorpresa” che l’incontro col Sudafrica le donò: “Dopo le riprese in Africa mi sono dedicata alla parte ‘italiana’ del documentario, intervistando mio padre e il compagno di fuga di mio nonno, ultimo testimone di quei fatti. Fu allora che scoprii che nonno Ermanno aveva salvato dai nazi-fascisti molte persone e tra queste c’erano anche dei sudafricani. I tedeschi e i fascisti ne avevano catturati diversi nelle guerre condotte in Africa. Mio nonno li aiutò a fuggire dai campi di prigionia in Italia, mandandoli in Svizzera. Sapere che fu legato al Sudafrica- conclude Francesca Bartellini- mi fece capire che l’incontro con quel Paese era nel mio destino“.

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