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L’immunologo: “In Italia meno di dieci casi di Hiv nei bambini all’anno. Ma serve attenzione”

Intervista al professor Paolo Palma dell'ospedale Bambino Gesù di Roma, dove attualmente sono ricoverati cento piccoli pazienti con infezione

Pubblicato:30-11-2022 18:33
Ultimo aggiornamento:30-11-2022 18:37

bambino ospedale
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ROMA – “Attualmente al Bambino Gesù sono ricoverati 100 bambini con infezione da HIV, il più piccolo ha 6 anni e per fortuna non abbiamo nuovi neonati. Ormai, nei Paesi in via di sviluppo come l’Italia, è considerata una patologia rara in ambito pediatrico e in Italia siamo intorno a meno di 10 nuovi casi di infezioni all’anno. Questo non toglie che bisogna comunque mantenere alta l’attenzione anche perché, a livello mondiale, si registrano circa 170mila nuovi casi pediatrici ogni anno. È un problema mondiale che oggi riusciamo a controllare abbastanza bene grazie alle reti di infettivologi e ginecologi, sempre più efficaci nell’identificare le mamme infette e nel fornire gli importanti strumenti di prevenzione”. Lo fa sapere il professor Paolo Palma, responsabile dell’unità di ricerca di Immunologia clinica e vaccinologia del Bambino Gesù di Roma, durante un’intervista rilasciata alla Dire in occasione della presentazione di una nuova procedura per i bambini affetti da HIV, messa a punto dall’ospedale pediatrico e dal Mit di Boston, in grado di caratterizzare la carica virale residua e la risposta immunitaria protettiva a essa associata presente nei pazienti, individuando quei bambini in cui il residuo virale risulta ‘dormiente’ e quelli in cui tale residuo comporta, se non adeguatamente trattato, un rischio di recidiva della malattia.

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“Tengo a sottolineare- spiega il professor Palma, referente del progetto- che si tratta di una ricerca di base molto importante, che però al momento non si può traslare in un messaggio di possibilità di interruzione della terapia antiretrovirale per tutti i piccoli pazienti. Stiamo cercando di capire sempre meglio perché in alcuni casi, quando un soggetto interrompe la terapia, esiste la possibilità che il virus non sia determinabile nel sangue, cioè non riprenda una replicazione attiva, e che quindi rimanga ad uno stato di latenza. In questo caso il soggetto rimane infetto, ma il virus non è più presente nel plasma, mentre ad oggi la maggior parte dei pazienti se interrompe la terapia, dopo poche settimane, ha una carica virale altissima”. Al momento non si può parlare dunque di “traguardo raggiunto”, ma senz’altro di un “passo importante” in questa direzione. Attualmente la prospettiva di un bambino che nasce con HIV è dunque quella di “prendere la terapia per tutta la vita e la nuova procedura, rivolta a un gruppo ristretto di piccoli pazienti, definisce meglio le caratteristiche dei bambini con questa possibilità”.


Interpellato infine sulle conseguenze che può avere nei bambini assumere una terapia antiretrovirale a vita, il professor Palma ha così risposto: “Chiunque di noi abbia seguito una terapia antibiotica, magari solo per una settimana, sa bene qual è la difficoltà di essere aderenti e costanti nell’assunzione di quella terapia. Immaginiamo allora tutto questo traslato in un bambino che cresce e che ha le sue esigenze, dalla gita scolastica alle uscite con gli amici. Tutto questo comporta innanzitutto una riduzione dell’aderenza alla terapia, proprio a causa di una ‘stanchezza terapeutica’. Il secondo punto è collegato al primo, cioè che tale stanchezza si porta dietro una possibilità di resistenze virali. Abbiamo imparato con il Covid quanto è importante il concetto delle varianti, cioè di un virus che ha fatto il cosiddetto ‘escape’ virale, per cui quel virus non sarà più sensibile alla terapia seguita da quel bambino- conclude l’esperto- e comporterà la necessità di un cambio di terapia”.

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