Getting your Trinity Audio player ready...
|
ROMA – In occasione della Giornata internazionale delle vittime di sparizione forzata nel mondo che si celebra oggi, 30 agosto, il governo di transizione che guida il Bangladesh da questo mese ha annunciato l’istituzione di una commissione per fare luce su centinaia di persone scomparse negli ultimi 15 anni.
Come riferisce la stampa locale, in settimana l’esecutivo guidato dal premio Nobel per la pace Muhammad Yunus ha inoltre siglato la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate, promossa dalle Nazioni Unite per stabilire principi e azioni che gli Stati devono osservare per scongiurare il fenomeno e dare giustizia a chi ne è stato vittima. Il fenomeno è infatti stato inquadrato giuridicamente tra i crimini contro l’umanità e pertanto non è soggetto a prescrizione.
L’organizzazione statunitense Human Rights Watch stima che in Bangladesh almeno 600 persone siano vittime di sparizione forzata, mentre la storica ong bengalese per i diritti umani Odhikar ne indica oltre 700 tra il 2009 e il 2024. I numeri potrebbero però essere più alti e ora si sta lavorando a un calcolo ufficiale. Lo ha spiegato Sanjida Islam Tulee, coordinatrice dell’associazione Mayer Daak, che in lingua bengali significa “Appello delle madri”. La rappresentante dell’associazione dei famigliari degli scomparsi ha spiegato, in un’intervista a Radio France internationale (Rfi), che dalle dimissioni della premier Sheikh Hasina, a cui è seguito lo scioglimento del parlamento e l’istituzione di un esecutivo di transizione, le famiglie hanno preso coraggio: “Ogni giorno escono nuovi nomi. Dopo la caduta di Sheikh Hasina, nuove persone stanno rivelando cosa è successo alla loro famiglia. Ciò che vogliamo è che tutte le persone scomparse vengano rilasciate e venga raccontato cosa gli è successo. Ma anche che i responsabili o le istituzioni coinvolte ne rispondano in tribunale“. La stessa coordinatrice di Mayer Daak non ha più notizie del fratello Sajedul da oltre di dieci anni. Da quando, ha raccontato, nel dicembre del 2013, “una camionetta dell’antiterrorismo si è fermata e lo ha arrestato in pieno giorno, mettendogli prima un sacco sulla testa e poi manette ai polsi”. Dettagli che la donna conosce perché Sajedul era seduto in un bar a chiacchierare con alcuni amici che hanno assistito alla scena.
Come riferisce il Daily Star, la commissione d’inchiesta istituita martedì scorso è composta da cinque membri che avranno 45 giorni per ricostruire le circostanze in cui sono avvenuti rapimenti e arresti arbitrari tra l’1 gennaio 2010 e il 5 agosto 2024, avvalendosi anche delle testimonianze raccolte da associazioni di familiari.
È un’iniziativa dal valore politico, per due ragioni. La prima riguarda l’arco temporale individuato, che va dal secondo anno del secondo mandato di Hasina come capo del governo, e termina con la sua fuga in India, all’apice di proteste popolari animate dai movimenti universitari in tutto il Paese. Secondo, al vaglio dei commissari ci saranno le azioni delle forze dell’ordine e dell’intelligence. La caduta del governo Hasina e l’avvento di un esecutivo ad interim che vede la collaborazione di movimenti della società civile che lottano per la democrazia, ha spinto infatti molte famiglie a chiedere la liberazione dei loro cari dai centri di detenzione.
Un sit-in promosso proprio da Mayer Daak si è tenuto in settimana davanti alla sede dell’intelligence a Dhaka, il Directorate General of Forces Intelligence (Dgfi), che l’organizzazione Odhakar ha individuato tra gli organismi responsabili delle sparizioni forzate, oltre che polizia, esercito e gruppi paramilitari tra cui Ansar. Oggi un’inchiesta del Dhaka Tribune riporta la testimonianza di una persona che è stata vittima di sparizione forzata, secondo cui ad arrestarla sarebbero stati uomini della Dgfi. Durante la manifestazione davanti la Dgfi, i responsabili di Mayer Daak hanno chiesto di conoscere dove sono tenuti i loro cari, ma hanno ottenuto come risposta solo il numero delle sedi dell’intelligence sparse nel Paese asiatico: 23.
Lo scorso 6 agosto, all’indomani della caduta del governo, il Daily Star ricorda che “un team di sei membri, tra cui attivisti per i diritti umani e un rappresentante delle Nazioni Unite, ha richiesto l’accesso alla struttura di detenzione. Alla squadra è stato permesso di visitare la sede della Dgfi a Dhaka il 7 agosto. Dopo essere uscita dalla struttura, l’attivista per i diritti Shireen Huq ha detto alle famiglie di alcune vittime che, stando alle dichiarazioni della Dgfi, non c’erano detenuti nella loro struttura di Dhaka. L’agenzia ha anche detto che formerà una commissione congiunta per organizzare visite per gli attivisti per i diritti umani in altre 23 strutture in tutto il paese per vedere se ospitano vittime delle sparizioni forzate”.
La testata conclude affermando che le persone che sono riuscite a uscire da questi centri hanno fornito resoconti “estremamente simili” rispetto alle modalità di arresto e alle caratteristiche di strutture e detenzione, dove solitamente le persone verrebbero portate “bendate“, in edifici “estremamente isolati“. Le vittime presenterebbero età e appartenenza a classi sociali, gruppi etnici, ambienti politici e religiosi “molto eterogenei fra loro”.
Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it