NEWS:

Primo maggio, Cgil: “Licenziamenti economici e disciplinari +30%”

Baseotto: "Il jobs act non ha funzionato"

Pubblicato:30-04-2017 12:09
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:10

FacebookLinkedInXEmailWhatsApp

ROMA  – “Con il Jobs Act i licenziamenti di natura economica e disciplinare sono aumentati del 30%”. Lo ha dichiarato Nino Baseotto, membro della segreteria nazionale della Cgil, alla vigilia della festa internazionale dei lavoratori.

La sua riflessione si basa sui dati, pubblicati da Eurostat e Istat, che collocano l’Italia al terzultimo posto nell’Ue per tasso di occupazione. Accanto alle tradizionali celebrazioni per il primo maggio, quindi, “serve anche una seria riflessione, non più rinviabile, su come riformare il lavoro”, sottolinea Baseotto all’agenzia Dire.


Che valore ha la giornata del primo maggio?

Ha un grandissima importanza perché aiuta a spostare l’attenzione generale sul tema del lavoro. Di questi tempi il nostro Paese ha l’assoluto bisogno di riportare il lavoro al centro del dibattito e dell’iniziativa politica. Lo diciamo anche nello slogan “le nostre radici, il nostro futuro”, scelto appositamente per questa edizione.

Parole che vogliono ricordare ciò che il lavoro ha storicamente rappresentato per l’Italia, ossia la leva grazie al quale siamo diventati un Paese moderno, tra i più avanzati nel mondo.

Oggi che siamo il fanalino d’Europa e fatichiamo a uscire dalla crisi, il lavoro deve rappresentare per tutti, a partire da chi ci governa, la vera fonte di ricchezza, l’opportunità per uscire da questo tunnel infinito e riprendere la strada della crescita.

Bisogna ridargli valore, deve essere questa la priorità nei prossimi anni.

Era uno degli obiettivi del Jobs Act. Cosa è cambiato dopo l’introduzione di questa riforma?

Vedendo i dati Inps della scorsa settimana, si può tranquillamente dire che il Jobs Act non ha funzionato.

Lo Stato – sostiene Baseotto – ha speso tanto ottenendo solo qualche ingiustizia in più. Penso ad esempio ai licenziamenti illegittimi, che sono aumentati in modo impressionante. E, di fatto, gli effetti promessi sull’occupazione sono stati risibili.

Ma c’è dell’altro. Il diritto alla reintegra, stracciato dalla riforma del 2014, era uno straordinario strumento di deterrenza. Infatti non è mai stato molto utilizzato. Tolto quello abbiamo avuto un picco di licenziamenti, anche se eravamo già una società che permetteva di allontanare agevolmente i dipendenti, si pensi alle previsioni di licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo.

Lo trovo sbagliato, così come sbagliata è la previsione di risarcimento al dipendente in caso di licenziamento illegittimo.

L’ulteriore paradosso riguarda il fatto che quelli assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act continuano ad avere il diritto di essere reintegrati. Ciò va contro la Costituzione, che specifica come tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge.

Peggio dell’Italia in Europa, in termini di occupazione, ci sono solo Croazia e Grecia. Quali le misure più urgenti da adottare?

C’è bisogno di un piano straordinario che riguardi da un lato il Mezzogiorno e dall’altro il lavoro giovanile. Noi infatti abbiamo un tema che è stato cancellato dall’agenda politica: il sud. La nostra opinione – prosegue il sindacalista – è che l’Italia non riuscirà a uscire dalla crisi divisa, tagliata in due.

Ci vuole una nuovo approccio fatto di politiche efficaci, politiche che naturalmente devono anche responsabilizzare la classe politica meridionale, che negli anni ha sicuramente avuto le sue colpe.

Al sud abbiamo il dramma, ormai atavico, della carenza di lavoro. E a seconda dei luoghi in cui si va, il dato della disoccupazione giovanile oscilla tra il 65 e il 72%. Ed è questa l’altra importante questione da risolvere. Il tasso di disoccupazione tra i ragazzi si è ormai stabilizzato intorno al 40%. Con questi numeri non ci può essere futuro per l’Italia.

Il premier Gentiloni, in un recente tweet, ha sottolineato che la disoccupazione giovanile è in calo e che le riforme funzionano.

Il presidente del Consiglio può anche ritenere che il suo compito sia quello di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, però se esultiamo per una diminuzione così risibile vuol dire che stiamo esultando sul disastro. Noi della Cgil non vediamo un’inversione di tendenza, e il motivo è semplice: non c’è una azione organica per combattere la mancanza di lavoro per i giovani.

Quando diciamo visione organica pensiamo a due cose: la prima, non ci si può pulire la coscienza con il vecchio e stonato ritornello ‘sostituiamo il lavoro dei padri con quello dei figli’.

Il vero obiettivo dell’Italia è quello di dover allargare la base degli occupati. Per produrre ricchezza bisogna assolutamente creare nuovi posti di lavoro.

Per riuscirci bisogna tornare a un concetto sacro per il privato ma che deve essere valido anche per il pubblico: quello di investire sull’occupazione. Concetto semplice, ma inattuato.

Proposte in tal senso ci sono?

Noi facciamo spesso un esempio: l’Italia investe miliardi di euro per porre rimedio alle catastrofi ambientali che periodicamente colpiscono il territorio.

Se ci fosse, non a parole ma nei fatti, un piano straordinario per la messa in sicurezza delle case e degli edifici scolastici, si creerebbe lavoro e al tempo stesso un impatto meno drammatico sulla popolazione e sulle infrastrutture. Senza, invece, continueremo a essere perduti: la forbice con gli altri Paesi europei negli ultimi anni si è addirittura ampliata, abbiamo perso ulteriore terreno.

Ma c’è un’altra cosa da fare. Investire in scuola, università, formazione e ricerca. I grandi Paesi europei – aggiunge il membro della segreteria nazionale della Cgil- in questi 10 anni di crisi lo hanno fatto, noi invece abbiamo tagliato i fonti. Non può funzionare così.

Un problema per le nuove generazioni, senz’altro. Ma influisce anche sulla capacità di attirare investimenti?

Sicuramente. Facendo il mio lavoro da sindacalista, specie nei miei trascorsi da responsabile delle politiche organizzative in Lombardia, ho spesso incontrato manager stranieri, specie nel settore dell’hi-tech, che avevano deciso di andarsene. ‘Perché lo fate?’, mi chiedevo. La risposta era sempre abbastanza secca. ‘Voi in Italia fate un gran parlare se tenere o abolire l’articolo 18, e molti dicono che questo articolo sia la cosa che impedisce alle multinazionali e aziende straniere di venire a investire in Italia. A noi ci interessa nulla dell’articolo 18. Dirigiamo aziende ad altissimo contenuto tecnologico e abbiamo bisogno di stare in un contesto dove il legame tra azienda, scuola, università e ricerca funzioni’. Ma da noi questa sinergia è solo un’utopia.

Così non si difende il patrimonio manifatturiero e terziario del nostro Paese, così lo si manda allo sbaraglio.

Che idea si è fatto del caso Alitalia?

Trovo che sarebbe giusto non dare per scontato questo cinismo di Stato. Mi spiego. Qualche esponente del governo ha dichiarato ‘il voto referendario è stato negativo, ora non ci resta che chiudere, fare lo spezzatino (dividere in più parti l’azienda, ndr) e finanziare il periodo di transizione per trovare gli eventuali acquirenti’. Non è questa la via per governare l’Italia.

Credo sia una visione tragicamente sbagliata e miope, oltre che ingiusta. Forse – dice Baseotto – converrebbe concentrarsi sui grandi errori fatti dal management della compagnia, sul fatto che il voto negativo al referendum sia il sintomo di una sfiducia totale nei confronti di queste figure. Adesso ci sono 20mila posti di lavoro in gioco e c’è un’altro pezzo della nostra economia in ballo. Anziché il cinismo dimostrato da molti politici, bisognerebbe provare a immaginare uno Stato che intervenga non per nazionalizzare ma per dare quel sostegno e quell’incentivo per favorire una ricapitalizzazione dell’azienda e la ricerca di un partner europeo forte con cui rilanciare Alitalia.

In chiusura: andrà anche lei, come i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, a Portella della Ginestra?

No, avrei voluto essere presente, anche perché sono passati esattamente 70 anni da quel tragico eccidio, che non va dimenticato. Sarò a Roma per il Concertone (http://www.primomaggio.net/), il tradizionale appuntamento in piazza San Giovanni. Felice di esserci perché per noi del sindacato è un grande momento, non solo artistico. La musica – conclude Baseotto – è cultura, e attraverso questo evento vogliamo trasmettiamo a milioni di persone il messaggio positivo rappresentato dal valore e dalla dignità del lavoro. Sarà come al solito una bella giornata di festa e di cultura per il nostro Paese.

di Niccolò Gaetani, giornalista professionista

Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it