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VIDEO | Epatite C, in Liguria messi subito a disposizione i farmaci direttamente attivi

Ospedali Galliera di Genova: "Di 1.300 pazienti trattati più di 1.000 sono guariti (oltre il 95%) dopo la cura

Pubblicato:29-10-2021 11:35
Ultimo aggiornamento:29-10-2021 13:03

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GENOVA – “Negli ultimi anni, da quando abbiamo a disposizione i farmaci direttamente attivi per l’epatite C, abbiamo avuto complessivamente oltre 1.300 pazienti. Di questi, oltre 1.000 hanno completato il trattamento con ottimi risultati: le percentuali di guarigione di quanti hanno completato i cicli di trattamento superano abbondantemente il 95%, tenendo conto di tutti gli stadi di fibrosi. Ovviamente, i pazienti a bassa fibrosi hanno avuto risultati che sfiorano il 99% di guarigione”. Lo ha dichiarato il Dottor Emanuele Pontali, Direttore f.f. S.C. Malattie Infettive – E.O. Ospedali Galliera, intervenuto in occasione del corso di formazione ECM sulla gestione dei tossicodipendenti con epatite C, organizzato dal provider Letscom E3 con il contributo non condizionante di AbbVie. Il corso, dal titolo ‘Hcv nei pazienti con disturbo da addiction – Strategie e Networking per l’emersione del sommerso nei Ser.T. della Asl 3 genovese’, rientra nell’ambito di ‘Hand – Hepatitis in Addiction Network Delivery’, il progetto di networking a livello nazionale patrocinato da quattro società scientifiche (SIMIT, FeDerSerD, SIPaD e SITD) che dal 2019 coinvolge i Servizi per le Dipendenze e i Centri di cura per l’HCV afferenti a diverse città italiane.

A che punto è la Liguria nella cura e nel trattamento dell’epatite C? E qual è, in particolare, la situazione a Genova? Il Dottor Pontali ha spiegato che “la regione Liguria si è distinta per aver messo a disposizione sin dalla prima ora i farmaci attivi ad azione diretta, i DAA”. Ha poi aggiunto che “vi è una rete di trattamento attraverso i centri prescrittori che va da Sanremo a La Spezia e che copre tutta la regione” ma ha sottolineato che “abbiamo assistito ad un esaurimento delle liste d’attesa delle persone che già sapevano di avere l’epatite e che attendevano i nuovi farmaci. Un po’ uniformemente su tutto il territorio regionale si è inoltre ridotto il tasso di arruolamento dei nuovi trattamenti, proprio perché il collo di bottiglia adesso non è più sui trattamenti ma sulla diagnosi, sullo screening delle persone che sono positive e magari non lo sanno. Oppure lo sanno ma per numerose ragioni non sono mai arrivate al trattamento”.

Pontali ha poi precisato che “dal mio punto di vista a Genova la situazione è buona: ci sono ben tre centri prescrittori. Oltre al nostro vi sono i due centri universitari di San Martino e della Gastroenterologia delle Malattie Infettive ed è in atto ormai da anni una collaborazione con carcere e Ser.D. del territorio per lo screening e l’avvio dei pazienti al trattamento”. “Certamente- ha poi reso noto- il Covid-19 ha rallentato tutte le nostre attività di collaborazione, soprattutto quelle di screening, con la riduzione dei pazienti che accedevano con frequenza a tutti i servizi dove avviene lo screening, però gli eventi organizzati, gli incontri ed i progetti che stanno partendo ci rendono fiduciosi sulla possibilità di far ripartire in modo significativo queste attività di screening, che poi, speriamo, porteranno un grande numero di soggetti al trattamento e, dunque, alla guarigione”.


Al corso ha preso parte anche la Dottoressa Ina Maria Hinnenthal, Direttore S.C. Ser.T. ASL 3 Genovese, che si è soffermata sulle modalità di organizzazione del Ser.D. per favorire il processo di screening e l’inizio verso la cura. Hinnenthal ha informato che “i Ser.D. in generale, ma anche quelli di Genova che sono articolati su 6 sedi, sono nati per screenare malattie infettive. Negli anni ’90 erano stati istituiti per fronteggiare l’emergenza Hiv e le morti correlate e fino ad oggi questa tradizione è stata mantenuta, con i Ser.D. che hanno una funzione infettivologica, oltre alla possibilità di fare prelievi di sangue”. La Dottoressa ha poi affermato che “non è nata oggi l’idea di screenare i pazienti anche per l’Hcv, questo è accaduto negli ultimi vent’anni, da quando si è potuto screenare l’Hcv che ai suoi tempi si chiamava ‘non A’ e ‘non B’ a livello di epatite”.

Hinnenthal ha tenuto a precisare che “negli anni precedenti i pazienti avevano paura delle cure, che all’epoca erano molto più pesanti sia da un punto di vista psichiatrico che fisico. Con il sorgere delle nuove cure questa barriera motivazionale si è molto abbassata, ma i pazienti hanno comunque paura dello screening se devono sottoporsi ad un prelievo di sangue, perché spesso non hanno più vene molto buone”. “Per questo-ha infine detto- sarebbe molto interessante, e noi ne saremmo davvero molto contenti, se potessimo avere accesso ai nuovi screening con test più facili e più rapidi, perché questo, di fatto, abbasserebbe anche la soglia motivazionale”, ha concluso.

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