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ROMA – “Nel mondo del lavoro si registra un grande stato di ansia, di disagio e di malessere. Pensiamo solo all’insicurezza del lavoro, alla precarietà e alla flessibilità malintesa. Tutti fattori fortemente stressogeni. Nel tempo, se questa situazione non verrà modificata e ben gestita, c’è un’alta probabilità che le persone si ammalino. Oltre al danno alla salute, ciò comporta anche un aumento dei costi del servizio sanitario nazionale. E paradossalmente un danno alle stesse imprese in termini di assenze per malattia, aumento degli infortuni, nonché decremento inevitabile della performance che riverbera sulla qualità dei servizi e dei beni prodotti. L’Oms prevede che nel 2020 la depressione sara’ la causa principale di inabilità al lavoro, parlare di stress nelle organizzazioni è quindi un obbligo di legge.” Lo afferma alla Dire Emanuela Fattorini, esperta di sicurezza del lavoro, prima presso l’Enpi (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni), poi nell’Ispel (Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza Lavoro) e attualmente consulente in Psicologa clinica e del lavoro presso il Consorzio Humanitas.
“Il decreto legislativo 81/08, e le successive modifiche e integrazioni (il cosiddetto Testo unico per la sicurezza), prevede che ogni datore di lavoro valuti il rischio stress all’interno della propria organizzazione. Se fino a questo momento ci sono state più deroghe che applicazioni- continua Fattorini- penso anche al famoso 626 esploso in Italia non molti anni fa, con l’81 non ci sono più giustificazioni. Tutti i datori di lavoro, pubblici e privati indipendentemente dalla consistenza delle imprese, dal bar sotto casa, all’ente pubblico fino alla grande impresa- precisa la psicologa del lavoro- tutti sono chiamati a valutare lo stress lavoro-correlato, anche in riferimento all’accordo europeo sullo stress del 2004”.
“Il datore di lavoro, come dice la legge, con i suoi collaboratori. Può succedere che all’interno dell’ impresa un datore non abbia tutte le competenze necessarie- spiega la consulente presso il Consorzio Humanitas- allora è consentito di rivolgersi a strutture esterne. Questo è un passaggio molto delicato, perché, indipendentemente da chi effettui la valutazione dello stress, il datore di lavoro ne rimane sempre e comunque responsabile. Pertanto è importante affidarsi a strutture competenti e affidabili. Inoltre, è da tenere presente che per le imprese diversamente inadempienti, la norma prevede anche sanzioni amministrative e penali”.
“Ricordiamo che la valutazione dello stress lavoro-correlato riguarda lo stress dell’organizzazione nei suoi diversi comparti, non dei singoli lavoratori. Può essere che sia necessario coinvolgere anche i lavoratori, ma in quel caso si farà in forma anonima. I dati che emergono sono sempre di tipo statistico. Una volta effettuata la valutazione, il datore di lavoro deve mettere in atto le misure d’intervento che eventualmente si siano rese necessarie o a carico del contenuto del lavoro (orario, pianificazione dei compiti, carico di lavoro, ecc.) e/o del contesto lavorativo (comunicazione, sviluppo di carriera, interfaccia casa/lavoro, ecc.). Quindi deve verificarne l’efficacia- chiarisce l’esperta- la valutazione deve essere ripetuta ogni qualvolta ci sia una modifica significativa nell’impresa, vuoi al livello di processo, vuoi al livello di gestione.”
“Una statistica italiana non esiste, però 4 lavoratori su 10 al livello europeo ritengono di essere stressati sul lavoro. Questo è un dato vecchio- prosegue- ho l’impressione che se in Italia facessimo un’indagine per verificare la prevalenza del fenomeno, troveremmo che 8-9 persone su 10, se non tutti, si dichiarerebbero stressati. Si tenga presente che perfino la Pubblica Amministrazione, da sempre una nicchia di sicurezza e di rassicurazioni, adesso manifesta condizioni di disagio. Si tratta soprattutto di precarietà intesa come paura di peggiorare, di non poter mantenere le condizioni lavorative acquisite. Inoltre, la campagna denigratoria contro i pubblici dipendenti carsicamente presente nell’opinione pubblica contribuisce a rendere conto di come anche in un ambiente protetto si possano riscontrare livelli interessanti di stress”.
“Probabilmente nel privato, anche se le persone non osano neanche rappresentarlo. Persino in sede di valutazione si tende, se non a negare, almeno a minimizzare il fenomeno. Nel pubblico si ha il timore di perdere qualche diritto acquisito, nel privato l’obiettivo prioritario è quello di non perdere il posto di lavoro. A qualunque costo”, conclude Fattorini.
di Rachele Bombace, giornalista professionista
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