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Egitto, l’attivista Shaath: “Europa, basta cooperare con le dittature”

L'attivista in questi giorni è in Italia per partecipare al tour di presentazione del Rapporto 2021-2022 di Amnesty International sulla Situazione dei diritti umani nel mondo

Pubblicato:29-03-2022 18:00
Ultimo aggiornamento:29-03-2022 18:00

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ROMA – “In Egitto c’è un regime terribile, che sistematicamente fa vivere le persone nella paura. Anch’io tuttora ricevo minacce. L’Occidente deve smettere di cooperare con la dittatura e iniziare a sostenere la popolazione e le sue richieste di dignità e libertà”. L’appello arriva da Ramy Shaath, attivista egiziano-palestinese, arrestato a luglio del 2019 al Cairo per il suo ruolo in vari movimenti politici laici e per la causa della Palestina, con l’accusa di compiere attività volte a destabilizzare lo Stato, e rilasciato lo scorso 5 gennaio dopo oltre due anni di detenzione senza processo. Una causa giudiziaria definita ‘arbitraria’ da parte delle organizzazioni per i diritti umani.

L’attivista in questi giorni è in Italia per partecipare al tour di presentazione del Rapporto 2021-2022 di Amnesty International sulla Situazione dei diritti umani nel mondo insieme alla ricercatrice e moglie Céline Lebrun-Shaath. E’ stata quest’ultima nel luglio 2019 a lanciare la campagna per la sua liberazione, e dall’appuntamento di ieri a Roma la coppia ha chiesto ai media e ai governi europei di “dare voce a singoli detenuti di coscienza per ricordare gli altri 60mila rinchiusi nelle carceri di Al-Sisi”, tra cui c’era anche Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna che Shaath ha incontrato nel carcere di Tora.

“E’ stato rilasciato- dice- ma è ancora sotto processo, tenuto ostaggio del governo affinché non parli“. A margine dell’incontro, all’agenzia Dire Shaath racconta: “Non potete immaginare quanto ti colpisca sapere che il mondo non si è dimenticato di te quando sei in una cella sottoterra. Quando mia moglie – che in 915 giorni di reclusione ha potuto farmi visita una sola volta – mi riferì i messaggi di sostegno da persone di tanti Paesi, anche i miei compagni di cella si sono sentiti meglio. Questo mi ha anche assicurato una certa difesa personale: quando il tuo nome è conosciuto, gli agenti ci pensano due volte a farti del male“.


Ecco perché ora l’attivista, che dopo il rilascio è stato deportato in Francia in quanto, in cambio della liberazione, le autorità hanno posto come condizione l’annullamento della cittadinanza egiziana, assicura: “Proseguiremo su questa strada: faremo pressione sui governi e le istituzioni europee affinché smettano di essere complici del regime egiziano e di questa ‘crisi dei detenuti'”.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, la ‘crisi dei detenuti di coscienza’ riguarderebbe chiunque rappresenti una voce contraria al governo del presidente Abdel Fattah Al-Sisi. “Ho conosciuto un uomo- dice Shaath- finito dentro perché il figlio di 9 anni aveva cantato a scuola una canzoncina tradizionale in cui c’è la parola ‘datteri’. Dato che ‘dattero’ è uno dei soprannomi del presidente, il maestro lo ha denunciato ma essendo troppo piccolo, la polizia ha arrestato il padre“.

Essere detenuti al Cairo nel carcere di massima sicurezza di Tora, continua l’attivista, “è atroce, un modo disumano di tenere le persone”. Shaath racconta: “è composto da nove sezioni e migliaia di persone. Nella mia eravamo oltre 800. Ero in una cella di 23 metri quadri ed eravamo tra le 18 e le 32 persone alla volta. Quando eravamo più di 30, disponevamo in media di mezzo metro a testa e dovevamo fare i turni per dormire, senza materassi. Le pareti sono fatiscenti, è pieno di insetti e circolano infezioni ed eritemi. Il bagno consiste in un buco a terra, sopra c’è la doccia da cui esce solo acqua fredda e qui la gente trascorre la maggior parte del tempo perché c’è solo questo per lavarsi, fare il bucato o preparare da mangiare. E la gente viene torturata di continuo. Sono rinchiusi anche minori, anziani, malati e disabili”.

Gli agenti, denuncia ancora l’attivista, “possono trasferirti in isolamento per i motivi più banali. La cella è una stanza senza finestre di un metro per mezzo metro, non si possono neanche stendere le gambe. Non c’è bagno, ma un secchio e una bottiglietta d’acqua. Possono tenerti qui anche fino a due settimane. Un mio amico non lo ha sopportato ed è morto. Si chiamava Abdelrahman Zawal“.

L’assistenza medica poi a Tora sarebbe inesistente: “A Tora c’è una piccola clinica che dispensa solo antidolorifici. Ho visto malati, disabili, persone che hanno subito torture non ricevere nessun tipo di assistenza. C’è chi ha ferite, alcuni hanno perso un occhio per le botte ricevute o sono svenuti per l’elettroshock. E ho visto malati di covid e in tanti sono morti ma a Tora non si fanno tamponi, né visite o vaccini. Quando qualcuno chiede aiuto perché pensa di avere il covid o dice che altri lo hanno, rischia di finire in cella di isolamento. Questo accadeva quando si sapeva benissimo che c’era la pandemia e ondate del virus nel Paese”.

Le minacce, assicura Ramy Shaath, “sono ovunque insomma: prima che ti imprigionino, perché non sai perché e quando lo faranno; durante il carcere, perché potranno farti di tutto; e dopo, perché io ancora ricevo minacce sul mio cellulare: il regime non vuole che la gente parli“.

Alla Dire l’attivista dichiara ancora: “La polizia ti dice di continuo che la legge non ti salverà. Il problema è che gli agenti sono davvero convinti di poterti picchiare o estendere la prigionia quanto vogliono, ma questo deve finire. Devono capire che ogni agente e il regime stesso possono essere perseguiti per i crimini commessi, compreso quanto avvenuto a Giulio Regeni”.

Violazioni a cui ora, con lo scoppio della guerra in Ucraina, l’Occidente sembra essersi scoperto più sensibile. “Quel conflitto sta rendendo evidente che l’Occidente applica un doppio standard” afferma Shaath, “lo fa nel modo in cui tratta i profughi ucraini rispetto a quelli dal resto del mondo, oppure nel modo in cui si pone rispetto alla questione ucraina e quella palestinese, dove la popolazione soffre da oltre 70 anni l’occupazione israeliana e l’apartheid. Gli ucraini- prosegue l’attivista- ovviamente hanno bisogno del supporto della comunità internazionale contro l’aggressione della Russia e per la popolazione che fugge dal paese. Ma qui si rende necessaria una domanda: cosa ne pensiamo dei regimi in Egitto, negli Emirati o in Israele? Si tratta di regimi identici a quello in Russia. Questo accade quando si permette alle dittature di crescere: lo vediamo con l’Egitto, un modello di regime che si sta replicando in Sudan, Tunisia o Libia”.

Quello che sta accadendo in Egitto quindi per Ramy Shaath “non è solo un disastro per gli egiziani ma anche una catastrofe che viene esportata. E’ ora di mettere fine a questa situazione. Farebbe bene alla stabilità del medio oriente e dell’Africa ma anche dell’Europa, perché l’afflusso di migranti, il terrorismo, la crisi del gas o l’instabilità sono problemi con cui poi devono fare i conti anche i governi europei. L’Europa deve cooperare con le popolazioni di quei paesi, non con i regimi”.

Una cittadinanza che undici anni fa chiese democrazia nel corso della rivoluzione pacifica di piazza Tahrir, al Cairo, ponendo fine a trent’anni di governo del presidente Hosni Mubarak. Quel movimento – chiediamo – esiste ancora? “Sì”, risponde Ramy Shaath, “e sono fiero di avervi partecipato. La gente ha chiesto dignità, giustizia sociale e libertà e per questo l’attuale regime continua a punire le persone. Tuttavia, sebbene negli anni l’anniversario del 25 gennaio 2011 non sia stato granché celebrato, perché la gente aveva paura di parlare della rivoluzione o credeva fosse fallita, quest’anno ho ricevuto tantissimi messaggi di persone che si congratulavano con quell’evento, oppure mi inviavano foto e video di iniziative per ricordarlo”.

In Egitto quindi “la ricerca di libertà e dignità sicuramente non è finita. Ma il popolo egiziano ha bisogno del sostegno dell’Europa e del resto del mondo”. Ramy Shaath ha svolto un ruolo determinante nella co-fondazione nel 2012 del partito laico El-Dostour di Mohammad El-Baradei, e del movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni su Israele (Bds), che punta a fare pressioni sul governo di Israele affinché ‘rispetti gli obblighi internazionali e ponga fine all’occupazione nei Territori palestinesi’.

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