Corno d’Africa, partita decisiva anche per l’Italia

Perchè la regione del Corno d'Africa è così importante e strategica anche per l'Italia: intervista a Federico Donelli, docente di Relazioni internazionali all'Università di Trieste

Pubblicato:28-12-2024 09:47
Ultimo aggiornamento:28-12-2024 09:47

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ROMA – Corno d’Africa, regione a geometrie variabili, che affaccia su una delle vie commerciali più strategiche al mondo, il Mar Rosso. Questa stretta lingua di mare collega tre continenti – Europa, Africa e Asia – grazie al passaggio non solo di navi mercantili e militari ma anche di quei cavi sottomarini che assicurano comunicazioni e connessione internet. Per questa ragione la stabilità dei Paesi dell’area diventa cruciale. Lo sa molto bene la Turchia, che da anni realizza una politica di investimenti pubblici e privati proprio per assicurarsi un ruolo in Africa, ma anche ‘verso l’Indo-Pacifico, che sarà la regione emergente dei prossimi anni’. Un valore geostrategico che sembra invece ‘meno chiaro ai Paesi occidentali, soprattutto all’Italia, che pur avendo buone relazioni con Paesi come Etiopia e Somalia, sta perdendo una partita strategica facile e fondamentale’: ne parla con l’agenzia Dire Federico Donelli, docente di Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste, tra i primi accademici stranieri ad aver tenuto una lezione per gli studenti della Somali National University di Mogadiscio, a fine novembre scorso, da quando è scoppiata la guerra civile.

Il punto di partenza dell’intervista è un fatto di cronaca recente: la firma ad Ankara di un’intesa tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed e il capo di Stato somalo Hassan Sheikh Mohamud: portati al tavolo negoziale dal presidente Recep Tayyip Erdogan dopo mesi di tensioni, i due leader hanno acconsentito al ‘reciproco rispetto della sovranità nazionale’. Il nodo, un accordo che a gennaio scorso l’esecutivo di Addis Abeba ha stretto col governo del Somaliland, regione parte della Somalia, che tuttavia si è autoproclamata indipendente nel 1991.
L’accordo prevedeva lo sfruttamento del porto di Berbera e delle coste da parte dell’Etiopia – che storicamente cerca vie d’accesso al Mar Rosso – in cambio del sostegno al governo indipendentista. Mogadiscio, sanzionando una violazione della propria sovranità, ha rotto le relazioni diplomatiche con la vicina Etiopia. ‘Ma quel che è peggio- riferisce Donini- Mogadiscio ha ordinato l’espulsione dei militari etiopi dalla missione di stabilizzazione dell’Unione africana‘, la African Union Transition Mission in Somalia (Atmis) che il 31 dicembre sarà rimpiazzata dalla African Union Stabilization and Support Mission in Somalia (Aussom). ‘Questo nonostante la presenza dei militari etiopi sia fondamentale per garantire la sicurezza non solo rispetto agli attacchi del gruppo armato Al-Shabaab, ma anche di vari gruppi tribali’. Tuttavia, la Somalia ha potuto fare questo passo perché ‘aveva ottenuto ad agosto rassicurazioni dall’Egitto – grande e storico rivale dell’Etiopia nella regione non solo per il contenzioso sulla gestione delle acque del fiume Nilo – di poterli rimpiazzare con 10/15mila militari egiziani. Ma Il Cairo ad oggi sostiene di averne inviati 300, mentre da quanto apprendiamo sarebbero una cinquantina, e si tratterebbe di funzionari militari e non personale da combattimento’.
Tuttavia, tanto è bastato per ‘far temere a un certo punto l’aggravarsi di queste tensioni fino a un conflitto armato aperto tra Somalia, Etiopia ed Egitto’. Ed è qui che entra in gioco la Turchia. ‘Erdogan ha favorito un accordo importante, che non è risolutivo, ma che ha garantito una de-escalation in una fase ritenuta pericolosa’. Un obiettivo che la Turchia ha raggiunto non solo in virtù degli ottimi rapporti che intrattiene con la Somalia e per il suo ruolo di secondo grande mercato emergente regionale dopo il Kenya, ma anche per via del mancato sostegno militare alla Somalia da parte del Cairo, che ha spinto Mogadiscio ‘a posizioni più morbide’.
In linea con l’intesa raggiunta il 12 dicembre, entro i prossimi quattro o cinque mesi dovranno avere luogo i negoziati sulle questioni concrete, e su questo, secondo Donini montano i dubbi sull’efficacia dell’azione turca: ‘L’Etiopia- premette il docente- vuole accesso al Mar Rosso per motivi commerciali e strategici (sogna anche di dotarsi di una marina militare) ma la Somalia non la può garantire proprio a causa della presenza dei gruppi armati lungo le strade di collegamento ai porti somali’, che si tratti di quello di Mogadiscio – gestito da un’azienda privata turca – o di quello di Berbera, nel Somaliland.

Ci sono poi questioni di instabilità più ampia: ‘Somalia ed Etiopia, per ragioni diverse, sono accomunate da profonda fragilità’. L’esperto parte dalla Somalia, mai del tutto uscita dalla guerra civile e interessata da un processo di ‘state building molto faticoso. Al centro, il fatto che le istituzioni statali non hanno il controllo di tutto il territorio sia a causa di Al-Shabaab che delle varie milizie claniche; inoltre vari Stati federali non rispondono a Mogadiscio, come Somaliland, Puntland e Jubaland’. In quest’ultimo caso di recente da uno scontro a fuoco tra esercito regolare e forze locali, a uscire vincitrici sono state le seconde. Secondo Donini, ‘sussistono dubbi sul futuro della Somalia. Esiste ancora la prospettiva di costruire uno Stato unitario? O bisognerà lavorare a una confederazione, oppure a un mosaico di Stati indipendenti?’ La comunità internazionale continua a finanziare il processo somalo ‘perché teme la ‘talebanizzazione’ della Somalia, ossia che gli Shabaab prendano il potere come accaduto con i talebani in Afghanistan’. Ciò determinerebbe un enorme problema non solo in termini di impatti sugli stati vicini, ma anche di ‘gestione del corridoio marittimo’.
Quanto all’Etiopia, ‘se fino a dieci anni fa era ritenuta una potenza regionale riluttante ad assumersi delle responsabilità nell’area, oggi è pervasa dai conflitti interni’. L’arrivo al potere di Abiy ha prodotto un processo di ‘oromizzazione delle istituzioni, storicamente in mano ai tigrini del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), che invece stanno subendo un ridimensionamento, dopo la guerra civile del 2020’. Quel conflitto ha prodotto anche ‘tensioni interne alla comunità degli Amhara, la seconda del Paese’, ma non mancano lotte di potere anche ‘interne agli oromo’. Le tensioni quindi nel Tigray, nell’oromo, nell’Amhara ma anche nell’Afar.
Nei Paesi vicini non va meglio: ‘La dittatura in Eritrea ha superato i 30 anni e pone dei dubbi così come Gibuti che, pur apparendo come il Paese più stabile, vive lotte intestine per la successione al presidente Ismail Omar Guelleh, al potere da 25 anni, e su cui corre voce che sia malato’.
Infine, lo stesso Mar Rosso è teatro di una guerra alle navi cargo combattuta dai ribelli Houthi che guidano lo Yemen in risposta all’offensiva militare di Israele contro la Striscia di Gaza. ‘Tutto è intrecciato e ha delle ripercussioni’ avverte Donini.
Nonostante ciò, la Turchia ne emerge come ‘la potenza più presente nelle dispute internazionali’, dopo il successo del ‘corridoio del grano’ nel Mar Nero mediato con l’Onu in piena guerra russo-ucraina, e più di recente rispetto alla Siria. ‘Erdogan e la sua classe politica’, continua Donini, ‘si stanno costruendo un’immagine di potenza regionale e internazionale che sfrutta l’attuale fase di transizione e rimescolamento degli equilibri’. Ma la foto scattata ad Ankara, in cui Erdogan si tiene per mano Abiy Ahmad e Sheikh Mohamud, ‘è un enorme capitale politico per l’elettorato turco, una carta che varrà negli anni’.
Una visione che però manca all’Europa, Italia compresa: ‘Avrebbe dovuto fare quello che ha fatto la Turchia’, sottolinea l’esperto, ‘aveva tutte le carte per provare, e sebbene tutti i governi negli ultimi dieci anni abbiano ignorato il Corno d’Africa, ancora ha ottime relazioni con la Somalia e l’Etiopia’. Secondo Donini, ‘sarebbe stata anche un’operazione molto semplice e a basso costo’. Insomma, in termini di influenza, quella italiana ‘è ai minimi storici. Paghiamo anni di scarsa attenzione e mancanza di una politica chiara‘. L’unico Paese europeo dinamico nell’area secondo il docente ‘è la Francia che, consapevole di stare perdendo la partita in Africa occidentale, si sta rivolgendo a quella orientale’.


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