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Mojo Italia, Gabanelli: “Cambiano gli strumenti, ma non la sostanza del giornalismo”

Al via dal 27 settembre la seconda edizione di Mojo Italia, il festival del Mobile Journalism dedicato ai professionisti del giornalismo

Pubblicato:28-09-2019 12:52
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:45
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ROMA – In occasione del Mojo Italia, la seconda edizione del Festival del mobile journalism, abbiamo chiesto un contributo di discussione a Milena Gabanelli, uno dei nomi più noti del giornalismo italiano per le innumerevoli inchieste condotte in tv. Oggi è responsabile della rubrica ‘Dataroom’ per il ‘Corriere della Sera’.

– Al Mojo Italia, il Festival del Mobile journalism si è discusso delle potenzialità del giornalismo in chiave ‘mobile’. Stiamo facendo una video intervista, per questioni logistiche, con Skype. Fino a non molto tempo fa questa cosa era impensabile. Le nuove tecnologie come possono aiutare il mondo del giornalismo oggi?


“Possono aiutare se non altro per la rapidità con cui si possono raccogliere delle testimonianza o delle immagini e inviarle in tempo reale”.

– La velocità però può comportare anche dei rischi, come le fake news. Ovvero, la velocità senza controllo, senza il vero ruolo di mediazione del giornalista, può essere pericolosa?

“Noi stiamo parlando del mezzo usato dal giornalista e non del mezzo utilizzato da qualcun altro che fa un altro mestiere, perché in quel caso sarebbe bene che la testata che riceve l’informazione verificasse. A meno che siamo di fronte ad un fatto evidente o palese. Il tempo per la verifica dipende dal tipo di notizia che tu devi dare, cioè se parliamo di una manifestazioni come il ‘Fridays for futures’ e uno documenta quante persone sono presenti non è che occorra fare chissà quale verifica. Diverso è rendo nota la storia di qualcuno che mi racconta di un episodio riportato, per quanto sia grave, mi si impone di andare a fare una verifica su quel che è realmente successo. La verifica la si poteva fare anche prima e anche prima c’erano giornalisti che non facevano tante verifiche, basta che pensiamo alla guerra in Iraq dove sono state prese per buone le notizie che il Paese era dotato di armi chimiche. Nessuno l’ha messa in discussione pur essendoci tanti elementi per farlo. E parliamo di testate molto autorevoli, anche con risorse per fare le verifiche”.

“Adesso chi fa giornalismo online non solo non ha il tempo, ma neanche le risorse, visto quel che vengono pagati i colleghi che producono articoli per le testate web e vista la volontà di avere informazioni gratis senza mai pagare alcunché. Qualcuno dovrà pur pagarla quella notizia perché dietro c’è una persona che fa quello di mestiere. La notizia più è accurata, più è verificata, più è completa, più è nuova e più presuppone che dietro ci sia una struttura economica. E la struttura economica non è fatta solo di pubblicità perché altrimenti è la pubblicità che decide che cosa leggere. Questo vuol dire che dietro c’è anche il contributo dell’utente che vuole essere informato in maniera corretta e quindi come uno prima pagava il giornale, come si paga il canone, qualcosa bisogna pagare altrimenti il prodotto sei tu”.

– Ai giornalisti oggi viene chiesto sicuramente di sapere scrivere, ma molto più spesso anche di saper girare delle immagini, montarle, se non addirittura pubblicarle. Ti chiedo se secondo te è in atto una sorta di deregulation del sistema giornalistico o è una trasformazione fisiologica?

“Ogni professione utilizza lo strumento o gli strumenti e i mezzi necessari in uso in quel momento. Una volta c’era la macchina da scrivere, si è passati poi al computer e adesso ci sono altri mezzi che rendono molto fruibile e performante la possibilità di raccogliere notizie e informazioni, quindi perché no. Ma tutta questa storia non è iniziata adesso. Io nel 1991 giravo da sola i miei pezzi, me li montavo da sola. ‘Report’ è nato nel 1997 con questa modalità che era quella del giornalista che con la telecamerina girava i suoi servizi, poi li montava e poi venivano trasmessi. Adesso si è solo rimpicciolito lo strumento ed è migliorata la qualità perché gli apparecchi sono sempre più piccoli, sofisticati e performanti. Non è che cambiata la sostanza del giornalismo perché dietro uno strumento c’è sempre una testa, non funziona da solo”.

– Quando parliamo di ‘Mobile journalism’ facciamo riferimento sicuramente al mezzo, ma anche di una capacità di ‘dominare’, e passami questo termine forte, anche quelle che sono le nuove piattaforme di comunicazione. Famosa è la frase di Umberto Eco: “I social media – disse – danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar senza danneggiare la collettività, adesso hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel”. Tu che cosa ne pensi?

“Io con Dataroom mi sono impegnata per cercare di portare un po’ di qualità, di reputazione, dentro anche al mondo social e io dedico molto tempo a rispondere e a interagire con gli utenti sia Facebook che Instagram. All’inizio era un po’ un porcaio, adesso lo è un po’ di meno, vuoi perché ci dedico del tempo quindi chi interviene lì sa che dall’altra parte c’è qualcuno che legge e risponde in maniera puntuale. L’obiettivo è evitare che qualcuno manipoli la notizia che tu hai documentato con una documentazione magari pregiudizievole e aggreghi poi persone. Bisogna intervenire per ripristinare il principio di verità, di oggettività sulla base della documentazione e delle fonti. Io tratto questa ‘piazza virtuale’ che è molto faticosa, molto insultante, molto piena di pregiudizi, come un dovere nella mia ultima stagione di carriera, per cercare di portare un po’ ti riferimenti di qualità essendo io non affiliata né ai partiti né a lobby, ma avendo solo e sempre risposto a chi paga, vale a dire l’utente finale”.

– Ci hai detto che ha iniziato proprio con una telecamerina in mano, ma oggi Milena Gabanelli, la farebbe un’intervista con uno smartphone?

“Zero problemi proprio. Dopodiché dipende sempre che cosa devo fare: cioè se mi trovo in una situazione in cui quell’intervista o la prendo al volo con lo smartphone o non ce l’ho, la prendo al volo. Se l’intervista è a un personaggio importante o è un’intervista che richiede una sua durata e posso utilizzare un mezzo di migliore qualità, allora lo utilizzo.

– …Proprio come abbiamo fatto noi in questo momento. Non siamo riusciti ad incontrarci a Milano e tu hai accettato la nostra risposta di fare questa intervista via Skype…

“È diverso intervistare un capo di Stato con lo smartphone, ma se non ho altra possibilità lo faccio con qualunque cosa. Se posso mi porto uno strumento che mi dia migliori qualità, sia video che audio, perché possibilmente ne farò un uso che si conservi anche magari negli archivi”.

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