Credits immagine di copertina: ESA/C. Carreau
ROMA – Le piccole eclissi di stelle lontanissime ci riveleranno se orbitano intorno a loro dei pianeti ancora sconosciuti, proprio come la Terra fa intorno al Sole. Scoprire nuovi sistemi planetari fuori dal Sistema Solare è il cuore della missione Plato dell’Agenzia spaziale europea (Esa), una missione che fa parte di quelle di classe media nel programma Cosmic Vision 2015-2025. Plato risponderà a tre domande:
Come si formano i sistemi planetari?
Il nostro Sistema Solare è unico oppure ce ne sono degli altri?
Ci sono pianeti potenzialmente abitabili?
In questa caccia al tesoro l’Italia è in prima linea, insieme alla Germania e ad altri Paesi europei. Dal 2026 in poi l’obiettivo comune sarà tracciare una mappa, finora inesistente, in cui, accanto al pianeta extrasolare individuato ci saranno anche le caratteristiche del sistema planetario scoperto. Ne abbiamo parlato con Isabella Pagano dell’Istituto nazionale di Astrofisica di Catania, Responsabile scientifica nazionale di Plato.
“Non ci occupiamo solo di trovare un pianeta: il prodotto di tutta la missione sarà un catalogo dove accanto all’indicazione dell’esistenza del pianeta stesso ci sono tutte le informazioni che riguardano quel sistema planetario– spiega Pagano- cioè in particolare la massa dei pianeti, la densità, l’età. Tutte queste informazioni le raccogliamo in parte utilizzando lo stesso satellite, perché in grado di fare studi di astrosismologia, che sono degli studi che indagando le variazioni della stella ci permettono di dirne l’ età con grande accuratezza, e anche la massa (l’età della stella e quella del pianeta di solito sono simili). Per quanto riguarda altre misure, si dovranno fare utilizzando i telescopi da terra. C’è una parte del consorzio di Plato, infatti, che si occuperà anche di osservare da Terra. C’è una sinergia fortissima: fa parte della missione raccogliere tutte le informazioni e quello che otterremo alla fine è capire qual è la probabilità che si formino pianeti come la Terra attorno a sistemi come il Sole”.
Plato raccoglie l‘eredità della missione Kepler della Nasa, spingendo la sfida ancora più in là grazie allo straordinario avanzamento tecnologico degli ultimi anni. Il satellite di Plato pesa circa due tonnellate e ha 26 occhi puntati sugli esopianeti.
“Quando abbiamo pensato Plato, e l’abbiamo pensato addirittura più di dieci anni, fa quando l’abbiamo proposto era il 2008 – racconta Pagano-, l’idea era quella di utilizzare la stessa tecnica che utilizza Kepler, però anziché guardare un campo con le dimensioni di un pugno, guardarne uno molto più ampio, simile a quello che a occhio nudo posso vedere da una terrazza. Un campo quindi gigantesco. Questo perché in questo modo noi vediamo tanto cielo insieme e in questo cielo ci sono tante stelle vicine, stelle brillanti. Quindi nel momento in cui noi andiamo poi a trovare un pianeta attorno a una di queste stelle, siamo in grado di fare tutti gli altri studi che desideriamo fare, perché per definizione stiamo cercando pianeti attorno a stelle brillanti. Questo non è per niente facile o banale. Perché non ci hanno pensato quando hanno costruito Kepler? Semplicemente perché non c’ era la tecnologia. Il vantaggio che abbiamo con Plato nasce dal fatto che nel frattempo abbiamo avuto sviluppi tecnologici che ci permettono di costruire rivelatori, i famosi rivelatori CCD che si mettono nel piano focale, dove viene registrato il segnale che raccogliamo, di dimensioni enormi: sono quattro rivelatori nel piano focale da quattromila per quattromila pixel circa, ce ne sono quattro per ogni telescopio e ci sono la bellezza di ventisei telescopi sul satellite. Questo è possibile grazie agli sviluppi che per esempio l’Europa ha fatto mettendo a punto il satellite Gaia”. Gaia, lo ricordiamo, è la missione dell’Esa che sta catalogando le stelle della via Lattea. Per fare un lavoro mastodontico la tecnologia deve essere all’avanguardia e quella di Plato lo è.
“Il satellite porta a bordo ventisei telescopi e ognuno di questi è un grandangolo, quindi praticamente è come se noi avessimo un grande teleobiettivo che ci permette di vedere una grande ‘piazza’ nella sua estensione. Sono configurati in modo tale che guardano per gruppi di sei zone adiacenti del cielo, per cui ci saranno delle zone che sono viste da tutti e ventisei i telescopi (sono quattro gruppi da sei più altri due telescopi che hanno delle funzioni supplementari, che servono a dare anche la stabilità al satellite. Hanno dei filtri che permettono di distinguere il segnale nella banda rossa da quello nella banda blu e servono solo per le stelle più luminose). Quindi questi quattro punti si sovrappongono facendo una specie di rosa di petali che in parte si sovrappone al centro e quindi lì tutti e ventisei guardano le stesse stelle. Poi c’è un’area in cui a gruppi di dodici guardano le stesse stelle e poi via via c’è anche una zona periferica, dove quella regione di cielo è guardata da soli sei telescopi. Quando noi combiniamo il segnale di tutti e ventisei telescopi è come se utilizzassimo un telescopio grande un metro”.
LEGGI ANCHE: Trappist-1 e gli altri, cosa significa davvero che un pianeta è abitabile?
In quest’opera di ricerca e mappatura l’Italia è in prima linea. Innanzitutto per quanto riguarda proprio il cuore operativo del satellite, cioè i telescopi di Plato, che sono stati pensati e realizzati nel nostro Paese. Il progetto ottico è stato ideato dall’Inaf, sono le sedi di Padova, Catania e Milano a lavorare sui telescopi. L’Agenzia spaziale italiana (Asi) ha poi selezionato le industrie per la realizzazione, con un raggruppamento di imprese capitanato dalla Leonardo, con Thales Alenia Space e Media Lario. Sono poi entrate anche imprese più piccole. Leonardo gestisce la costruzione delle ottiche.
L’ integrazione del telescopio, la parte meccanica e le strutture metalliche che sorreggono le lenti sono invece un progetto dell’ Università di Berna, su cui però vigila sempre l’Inaf. Thales a Torino si occupa dei paraluce dei telescopi, mentre Media Lario, in provincia di Lecco, costruisce la prima lente, la più esterna, con una lavorazione molto particolare di cui in Europa, racconta Pagano, si diceva: non ci riuscirete mai. E invece la sfida è stata vinta. Anche il computer di bordo è italiano, è un progetto seguito dall’Inaf di Roma, di Firenze e dal distaccamento delle Canarie. L’Asi ha affidato il contratto all’azienda Kaiser di Livorno. Non finisce qui: l’Italia sta coordinando, con l’Università di Padova, la compilazione del catalogo di input, cioè la lista delle stelle da osservare per Plato: tutto ciò che va studiato, infatti, va deciso prima per non disperdere le osservazioni del telescopio spaziale. Poi, di recente, grazie al supporto fortissimo dell’Asi, l’Italia ha preso il coordinamento del sistema dei telescopi a livello europeo.
Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it