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“Creare mostri è pericoloso per tutti”: intervista al presidente della Caritas

Nico Perrone, direttore dell'Agenzia di Stampa Dire, intervista l'Arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente Caritas

Pubblicato:28-06-2019 15:22
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:28

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ROMA – “È molto agevole cercare delle scorciatoie. La più facile è creare paure o, meglio, far percepire paure a livello emotivo e non pensato, per poi proporsi come coloro che le controllano in nome del ‘popolo'”. Da poco alla guida di Caritas italiana sta vivendo una fase molto ‘calda’ e delicata della vita politica e sociale del nostro paese. L’Arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, nell’intervista rilasciata all’agenzia Dire non si sottrae e risponde a tutte le domande, anche a quelle che sfiorano l’attualità politica.

Papa Francesco chiede ai cattolici di fare politica ‘alta’, al servizio di tutti. In Italia prevale un atteggiamento di scontro, dove serve un nemico. Alibi per le non risposte della politica, del governo che fa poco per sconfiggere le paure anzi sembra crearne di nuove…

“Nei momenti di passaggio, di crisi, quando è difficile vedere il nuovo- risponde Redaelli- quando si vive quell’atteggiamento che nel suo ultimo saggio Bauman ha definito ‘retrotopia’ (che è il contrario di ‘utopia’, un guardare indietro invece che avanti) è molto agevole cercare delle scorciatoie. La più facile è creare paure o, meglio, far percepire paure a livello emotivo e non pensato, per poi proporsi come coloro che le controllano a nome del ‘popolo’. Il gioco è pericoloso per tutti. Prima o poi i ‘mostri’ creati da chi pensa di proporsi come il loro domatore, si ribellano contro chi li ha fatti nascere, ma nel frattempo hanno provocato disastri nel tessuto sociale, disorientando le persone, facendo saltare i valori condivisi, creando conflitti. Ricostruire dopo la tensione verso il bene comune diventa molto difficile”.


Non pensa sia necessario un salto culturale, cambiare l’approccio quando si parla di immigrati e di accoglienza. Lo si vede: basta poco per scatenare odio e rancore e su questo consolidare consenso politico. Ci sono colpe anche di chi difende a spada tratta l’arrivo di migranti?

“Il salto culturale dovrebbe consistere in negativo- risponde il presidente di Caritas- nel non usare il problema dei migranti come tema di scontro politico e questione discriminante che divide in due fazioni contrapposte e, in positivo, nell’affrontarlo nella sua complessità ben sapendo che non si può risolverlo, ma lo si può ‘governare’. Governare significa farvi fronte con la necessaria pacatezza, vedendo tutti gli aspetti della questione e cercando di fare insieme (intendo anche con altre nazioni, anzitutto quelle che compongono la Comunità Europea) i passi possibili. E ci sono passi possibili, anche se non facili, né immediati: aiutare a risolvere le situazioni di guerra, di povertà, di persecuzione che sono spesso all’origine di massicce emigrazioni (si pensi a paesi come la Siria, l’Iraq, l’Eritrea, ecc.); trovare modalità di ingresso regolamentate e sicure; garantire a chi ha diritto allo status di rifugiato la necessaria accoglienza; favorire i ricongiungimenti familiari; accompagnare processi di integrazione e così via”.

Secondo lei c’è un problema ‘prima gli italiani’ oppure bisogna puntare a far sì che si affermi il principio di eguale trattamento? Anche su questo c’è chi dice che si favorisce chi arriva e non chi vive qui da sempre…

“Mettere in contrasto tra loro i poveri e i bisognosi- risponde- è un vecchio, ma purtroppo sempre molto efficace, sistema di chi detiene il potere e i soldi. Certe discriminazioni tra italiani e stranieri sono incomprensibili. Per esempio, non garantire ai bambini e ai ragazzi la possibilità di frequentare le scuole, accampando come scusa che per favorire l’integrazione gli alunni stranieri non devono superare una certa percentuale in ogni classe. Principio del tutto condivisibile, purché si attivi un numero sufficiente di nuove classi, se quelle esistenti non bastano, e non si lascino in mezzo alla strada dei bambini e dei ragazzi. Tra l’altro esperienze di rifiuto subite da piccoli lasceranno sicuramente una traccia indelebile in chi diventato grande resterà comunque qui da noi. Analogo discorso va fatto quando si pone un limite eccessivo per l’accesso a determinate possibilità (per esempio di ottenere una casa popolare) in riferimento agli anni di permanenza in Italia, anche in presenza di altri requisiti (per esempio un regolare contratto di lavoro)”.

Anche tra i giovani cresce il razzismo, la risposta violenta… la scuola fa tanto ma evidentemente non basta. Come si interviene, come si conquista la loro attenzione su questo problema?

“I ragazzi – ma la cosa vale anche per gli adulti – si convincono non di fronte a generici appelli, ma quando incontrano storie vere, persone reali, meglio se in presa diretta. Quando per esempio i migranti, i carcerati, i senza fissa dimora smettono di essere un’etichetta e diventano persone con un volto, una voce, una vicenda umana, degli affetti tutto cambia”.

Il nostro paese ha bisogno di immigrati, viviamo un vero e proprio dramma demografico. Secondo lei torneremo anche noi a fare figli o ha vinto l’egoismo del godimento singolo, immediato… perpetuo?

“Non darei la colpa solo al godimento singolo e immediato- risponde il presidente di Caritas italiana- In realtà la crisi demografica è un meccanismo che si ‘autonutre’ ed è difficile da bloccare. Mi spiego: una società che invecchia, e che quindi ha meno prospettive, meno voglia di rischiare, meno futuro, è una società che invecchierà ancora di più: allontanerà i giovani (che appunto vanno spesso altrove), non favorirà la loro autonomia anche economica, darà loro poco spazio, li scoraggerà… A questo punto chi ha voglia di fare una famiglia, chi ne ha le risorse, chi rischia di fare figli? Mi dispiace, ma su questo non mi pare ci siano grandi prospettive e ho l’impressione che dobbiamo abituarci a gestire un periodo non breve di decadenza della nostra società almeno per un po’ inarrestabile, e non solo sul piano demografico. Ma guai se i cristiani e anche le persone di buona volontà perdono la speranza…”.

Quali le priorità del suo mandato?

“Sono convinto che la Caritas, ai vari livelli, debba certamente continuare a gestire tante iniziative per venire incontro a vecchi e nuovi bisogni e lo fa, mi pare – mi sia permesso di affermarlo con una punta di orgoglio – bene e con la disponibilità generosa di tante persone. Ma non basta. A mio parere deve investire maggiormente su quella che da sempre è una sua caratteristica: la funzione pedagogica. La Caritas non può avere e non ha la pretesa di risolvere tutte le povertà, ma mentre cerca per quello che può di venire incontro a molte di esse, lo fa come ‘segno’, come ‘profezia’ rivolta all’intera comunità cristiana (che non deve delegare la ‘carità’ alla Caritas…) e anche alla società civile. Ritengo che una Caritas più libera, meno bloccata da iniziative troppo pesanti e magari ripetitive, più agile, più aperta all’azione dello Spirito e attenta ai muovi bisogni anche spirituali, possa fare molto bene”.

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