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Nei centri antiviolenza tensione tra autorappresentazione e concetto di servizio

Così Beatrice Busi, ricercatrice del progetto ViVa, nel corso della presentazione dei primi risultati della sezione qualitativa del progetto in corso

Pubblicato:27-11-2019 17:58
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 16:40

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ROMA – Nella fase preliminare dell’analisi delle interviste realizzate in 35 centri antoviolenza nell’ambito dell’indagine qualitativa condotta dal progetto ViVaMonitoraggio, Valutazione e Analisi degli interventi di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne emergono esempi di “tensione tra dimensioni simboliche e pratiche, tra il tipo di luogo che è il centro antiviolenza e il concetto di servizio”. Così Beatrice Busi, ricercatrice del progetto ViVa, nel corso della presentazione dei primi risultati della sezione qualitativa del progetto in corso a Palazzo Merulana a Roma. 

“Uno dei centri antiviolenza a gestione pubblica definisce il proprio lavoro come un servizio, in base a criteri di accessibilità, utilità e produzione di risultati- continua la sociologa- L’autorappresentazione dei centri antiviolenza femministi a gestione privato sociale, invece, è diversa e i centri antiviolenza vengono definiti come luoghi di libertà, in cui si fa anche politica”. La stessa tensione “si può ritrovare nella definizione del tipo di percorso attraverso il quale i centri antiviolenza accompagnano le donne- sottolinea- Anche in questo caso i cav insistono che non c’è niente di standardizzato nel percorso di una donna, che è centrato sui suoi bisogni, quindi è personalizzato”. 

Da questo punto di vista, torna la definizione di “centro antiviolenza come luogo di libertà in cui si stabiliscono patti di alleanza tra donne e in cui il lavoro delle operatrici si configura anche come una scelta di vita”. E ancora, la tensione si ravvisa “nella difficoltà che i cav hanno nel rapportarsi con gli altri servizi delle reti territoriali”. Anche quando ci sono “esperienze positive di cooperazione”, infatti, “si sottolinea l’approccio burocratico” in cui si perde – o va in secondo piano – “la centralità della donna e della relazione tra donne”, che è l’approccio del lavoro nei centri. La categoria di lavoro volontario nei cav, poi, “va spacchettata- ha detto la studiosa- perché anche le operatrici retribuite svolgono un monte ore di lavoro gratuito e ci sono figure volontarie che non entrano direttamente nel percorso che svolgono le operatrici”, ma che comunque orbitano all’interno di cav e case rifugio. 


Data la preliminarità della fase di lavoro, quindi, “come si può riuscire a incorporare in un modello ottimale dei servizi le genealogie politiche, le esperienze, l’autoriflessività e la processualità delle pratiche antiviolenza?”, è l’interrogativo finale della ricercatrice, che aggiunge: “Dovremmo avere la capacità di restituire al lavoro dei cav e del privato sociale la dimensione che gli è propria, di soggettività nè strettamente pubbliche né strettamente private. Auspichiamo che le politiche pubbliche e sociali prendano sempre in considerazione il lavoro dei cav dal punto di vista dei centri e non da quello istituzionale”, ha concluso.

MANCANO LINEE GUIDA E STANDARD

Dinamismo del settore, crescita delle collaborazioni con altri soggetti attivi nel campo dell’antiviolenza, tendenza dei programmi ad aggregarsi in network nazionali, presenza di personale formato. Nei programmi per autori di violenza sono questi gli indicatori col segno in base alle conclusioni emerse dall’indagine effettuata da Istat e Cnr-Irpps nell’ambito del progetto ViVa.

Tra le criticità, invece, si evidenziano: la distribuzione territoriale eterogenea, con una maggiore concentrazione dei programmi al Nord; la difficoltà ad instaurare relazione di collaborazione con i centri antiviolenza; il parziale ricorso a procedure standardizzate; la presenza di un quarto di programmi che ancora non effettua la valutazione del rischio; la carenza di procedure standardizzate di rilevazione; il numero ridotto di prese in carico; e l’assenza di linee guida e standard minimi a livello nazionale, così come ribadito dal Piano Strategico Nazionale contro la violenza sulle donne 2017-2020.

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