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DIRE..tta dall’Albania. Alì Pascià, il miraggio di Karaburuni e la Giulietta/FOTO

"Qui si arrabbiano se attacchi bottone in inglese, “una faza una raza” vale anche qui"

Pubblicato:27-08-2016 12:18
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:00

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Pastore ©Maria Rosaria Furio

PALERMO – L’Albania è un passaparola. Prima di partire, quei due o tre che già ci sono stati ti convincono a suon di “vedi che il mare è come quello della Grecia”, o “non hai idea di che ti mangi con 4 o 5 euro”. Per dormire? “Basta prenotare su Booking o meglio ancora, ti fermi in un posto, chiedi una stanza e la trovi sicuro”. L’ottimismo può aiutare ma la realtà è un’altra: anche se ce l’hanno venduta come “sorpresa dell’estate 2016”, l’Albania non è (ancora) meta per stomaci deboli.

Ce ne si accorge subito, appena messo piede sul traghetto da Brindisi a Valona: sempre quello da dieci anni, regolarmente in ritardo di due o tre ore sulla partenza prevista. Abbiamo pagato di più per avere i posti a sedere ma quando andiamo a reclamarli un’increspatura ironica sulla faccia dell’unico disposto a spiegarcelo ci respinge nella categoria degli sprovveduti. “Non lo fa mai nessuno, chi prima arriva meglio alloggia. E’ la regola”. Non è ben chiaro chi siano i fortunati. La scena sul traghetto European Voyager, per lo spensierato vacanziero occidentale, è apocalittica. La stragrande maggioranza dei passeggeri è stravaccata a terra ovunque, con o senza telo, accampata persino davanti alle porte dei cessi, e sembra essere lì da sempre. Donne spettinate allattano bambini. Che piangono. Le piante dei piedi che si offrono alla vista di chi sale le scale per guadagnare il ponte sono nere e coriacee. Gli sguardi dei vecchi albanesi, rassegnati alle sette ore di viaggio notturno, sono stanchi, ma fieri. Alcuni fighetti hanno gonfiato dei materassini nei corridoi che separano le scale dalla zona bar, di fronte a una stanzetta buia con quattro o cinque slot machine che dovrebbe, da cartello, essere il “casinò”. Non è in funzione. Distribuiamo la xamamina contro la nausea, perché stanotte il mare si è messo di traverso, e ci si passa silenziosamente in rassegna. Siamo una decina e pronti a tutto, col sorriso delle partenze. L’Albania è da visitare con le persone giuste: non potevo chiedere di meglio.


SUV ©Alessandro MattinaAl mattino il traghetto si risveglia poco alla volta in un’atmosfera da Sopravvissuti e Eros Ramazzotti in filodiffusione ci spinge tutti sul ponte, a guardare la costa albanese in avvicinamento. Valona (Vlorë) è un paradosso estetico, un gigantesco domino di cemento eretto fra la montagna e il mare. Sulle strade polverose della città, che sembra un unico grande cantiere, affacciano rosticcerie dove pecore arrostiscono sugli spiedi e bar da cui le donne sembrano bandite. Comincia la nostra confusione nel cambio fra euro e lek: 1 euro = 136 lek circa, ma gli albanesi tendono ad aggiungere uno zero perché ragionano ancora con la vecchia valuta di trent’anni prima, o fanno finta. Qui si arrabbiano se attacchi bottone in inglese, “una faza una raza” vale anche qui, ma basta prendere la strada della montagna perché tutto cambi. In linea d’aria Saranda, la principale città turistica del Sud, che è la nostra meta, è a solo un centinaio di chilometri, ma l’unica strada praticabile, percorsa anche dai vitelli e dalle capre più spregiudicate di sempre, raddoppia la distanza. Dopo un’ora di tragitto il manto stradale diventa uno sterrato polveroso che attraversa piccoli centri, con ristoranti in cui si mangia un’eccezionale carne di agnello fra galletti che razzolano in mezzo ai tavoli. Tutt’attorno, la skyline delle colline e delle vallate è costituita dagli scheletri dell’abusivismo edilizio, fondamenta di cemento da cui anime di ferro spuntano come sentinelle indifferenti, pompe di benzina e gli immancabili lavazhi, gli autolavaggi, che sembrano essere la principale attività commerciale dei paraggi.

Tamoil ©Alessandro MattinaDopo altre due ore e mezza di macchina siamo finalmente a Saranda, la Rimini albanese. Il lungomare è una successione insopportabile di locali destinati ai turisti di questo o quel paese, quelli che ovunque vadano vogliono ritrovare un pezzo di casa loro, ma il mare, finalmente, è all’altezza delle aspettative. Tutto si può fare, in Albania, compreso parcheggiare il fuoristrada in riva al mare, ma non noleggiare una barca senza patente nautica. Ripieghiamo sui pedalò ed esploriamo le isole di fronte a Ksamil, fra cui le isole gemelle, legate da un sottile istmo di terra. L’acqua è limpidissima, la frittura di pesce cara, ma la sera si realizza un sogno proibito. Il ristorante serve datteri di mare, illegali in Italia dal ’98 e dal 2006 in tutta la Ue, perché per prenderli occorre distruggere gli scogli, a volte con esplosivi. “Tu li vuoi mangiare, io te li do” sorride pragmatico il cameriere, fornendo un altro assaggio del far west albanese. Come punizione, la digestione notturna del mollusco non è pacifica per tutti.

Capra ©Alessandro MattinaSarà la maggiore presenza di turisti, o la sagoma di Corfù onnipresente che contamina i menu dei ristoranti con moussaka e tkaziki, ma a Sud le contraddizioni si offrono allo sguardo dello straniero con meno pudore ancora. Le strade sono percorse da Mercedes e altre auto di lusso, compresa qualche Aston Martin, mentre bambini o anziani stanno seduti agli angoli delle strade sotto il sole con in mano il cartello “dhoma me qera, affittasi stanze”. La qualità degli alloggi è soggetta a misteriose oscillazioni: per dodici euro dormiamo in una stamberga infestata dagli acari con lo scarico del wc rotto. La donna delle pulizie non parla né italiano né inglese, a gesti le facciamo capire cosa non va. Sposta il coperchio, infila la mano e tira un tubo di plastica con la stessa padronanza di una hostess che ti mostra come si gonfia il giubbotto di salvataggio: gli imbecilli siamo noi, turisti dalle pretese esagerate. Ma il giorno dopo, per qualche euro in più, affittiamo un appartamento con due bagni e due matrimoniali che affaccia sul golfo, colazione inclusa. L’inglese è parlato da pochi e in modo approssimativo, ma quando trovi un cameriere che sa l’italiano (“l’ho imparato da Italia 1”, ci dice uno, elencando il palinsesto pomeridiano anni ’90 con molta più precisione di noi), è un attimo che si lamenta delle massacranti condizioni di lavoro. Sveglia alle 4, servizio ai tavoli fino all’1 di notte, 150 euro al mese. Arrotonda vendendo marjuana. Siamo subito pronti a elargire più mancia del previsto per celebrare il talento tutto mediterraneo dell’esagerazione, ma le occhiaie gli danno ragione, l’orologio pure: ce ne andiamo al mattino e alle 3 di notte, quando torniamo, è ancora lì. Non è nemmeno l’unico. Non è più l’epoca dei gommoni ma sono tanti i ragazzi che ci raccontano di tornare a fare la stagione a casa per permettersi di studiare in Italia (come il barista del traghetto: tre o quattro ore di sonno al giorno, andata e ritorno fra Puglia e Albania per tutta l’estate: 500 euro al mese).

Butrinto ©Alessandro MattinaMentre la gioventù dell’Albania post-crollo del Muro cerca un nuovo compromesso con quell’Europa di cui un po’ fa parte e un po’ no, noi ci mettiamo sulle tracce di Alì Pascià, il feroce militare albanese le cui gesta efferate affascinarono tanto Byron quanto Dumas padre, che raccontò i suoi ultimi giorni nel Conte di Montecristo. Siamo all’imbocco del Canale di Vivari, nel Parco nazionale di Butrinto. La strada finisce direttamente nel fiume, dall’altra parte ci sono solo campagne. I locali non si sono nemmeno dati la pena di costruire un ponte: per chi vuole andare dall’altra parte con la macchina o a piedi c’è una zattera che fa la spola di continuo.

Pescatore ©Maria Rosaria FurioSulla banchina c’è un gruppo di pescatori. Scegliamo quello con più rughe in faccia. Non capiamo il suo nome, lo chiamiamo Vittorio. Mentre ci porta al Castello di Alì Pascià si fa gettare la benzina da un’altra barca che percorre il canale in senso inverso e ci parla della pesca. In albanese. Non si fa problemi per le difficoltà di comunicazione, il che fa sì che ci capiamo. Una faza una raza. Le grida della Storia si spengono alla vista sulla baia dalla fortezza, al tramonto. Proviamo a risvegliarle con una visita all’acropoli, sulla collina che sorge proprio accanto al canale. Gli scavi ordinati da Mussolini nel 1928 (quando si manifestò l’intenzione del governo fascista di allungare i tentacoli su quest’area dei Balcani) hanno portato alla luce un’incredibile parco giochi archeologico. Camminando nella pineta d’improvviso si svela un set da Antica Grecia, con un’agorà, un tempio, poi una pavimentazione romana strepitosamente ben conservata nonostante l’assenza totale di protezioni e controlli (sotto i nostri occhi, un gruppo di floride signorine coi tacchi approfitta delle locations per confezionarsi un book fotografico, avvinghiandosi a ogni colonna e baciando i busti), una basilica paleocristiana e poi tracce della successiva presenza bizantina. Ingordi di storia ci spostiamo a Porto Palermo, altra roccaforte di Alì Pascià situata su una selvaggia penisola dalle parti di Himare. Ci distrae l’impressionante concentrazione di ricci. Gli albanesi non se li filano. Li apriamo con i sassi, il pane è negli zaini.

Istmo ©Alessandro Mattina

Istmo ©Alessandro Mattina

Lo so che chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare fino a qui vuole sapere soprattutto com’è il mare. Se si evitano, com’è ovvio, i centri più turistici, si trovano spiagge strepitose (una delle migliori è quella di Poulebardha, un semicerchio scavato in una scogliera altissima a favor di tramonto), ma le migliori in assoluto bisogna cercarsele. A Jalë, ad esempio, la cosa più saggia da fare è pagare una barca che vi accompagni in una delle insenature della costa (come la paradisiaca Gjipe) e torni a prendervi al calar del sole. Non mancano i chioschetti dove sorseggiare Ouzo o Raki, la fortissima grappa greco-albanese, ma qui, forse ancora per poco, il turismo di massa non ha ancora messo piede. Nonostante qualche barca a motore possa in assenza di regole arrivare praticamente a riva, può comunque capitare, in un momento di grazia, di vedere un branco di pesci a poche centinaia di metri saltare fuori dall’acqua per sfuggire all’attacco dei predatori, che offrono per qualche secondo la vista delle loro code argentee, guizzanti, all’incanto degli occasionali spettatori.

Orikum ©Maria Rosaria Furio

Orikum ©Maria Rosaria Furio

Bisogna cercarsele, le spiagge. In qualche caso persino guadagnarsele. Con nostro grande scorno la più bella spiaggia d’Albania, la leggendaria Karaburuni, è rimasta solo un miraggio, ma l’avventura valeva il tentativo. Il ventiseienne gestore del nostro hotel di Orikum ci mette in guardia: per arrivarci via terra c’è una sola strada. Per raggiungerla occorre superare un posto di blocco albanese. Accanto al militare seduto a un tavolino su un praticello rinsecchito c’è un omone che vende i biglietti per un sito archeologico. E’ lui che, sempre secondo l’albergatore, dovremmo “oliare”. Ma per quanto spacconi, la nostra familiarità con la corruzione è ridicola. Compriamo i biglietti per il sito, che poi si rivelerà un ammasso di rovine (importantissime sulla carta, ma in perfetto stato di abbandono in mezzo a un campo di fichi). Procediamo con la macchina e ci ritroviamo nel bel mezzo di una zona militare turca. Un paio di tizi in lontananza lavano navi con una pompa. La strada che porta a Karaburuni passa da lì. Scendiamo dalla macchina e gli unici due militari a vista mettono mano a arma e radio. Si rilassano solo al nome della spiaggia e al “merhaba” dell’unico fra noi che abbia un’idea delle formule di cortesia turche. La strada, dicono, è appena lì dietro. Ma quando ci arriviamo ci coglie un’improvvisa pietà per la nostra Giulietta, partita in ottimo stato dall’Italia e ora provata da impatti con fioriere e senza una maniglia. Il militare albanese, al ritorno, se la ride. Su quella strada ci si va a stento coi gipponi, dice, perché è stata bombardata e mai più resa agibile. C’è solo un altro modo per arrivare a Karaburuni: in barca. Un’ora di viaggio al costo di 200 euro. Ci rinunciamo: ormai dobbiamo ripartire.

Il traghetto del ritorno, sempre quello, naviga placido nella scia di una immensa luna rossa. Rossa come la bandiera dell’Albania che sventola ovunque, con quell’aquila a due teste proveniente dal sigillo dell’eroe albanese Scanderberg che per poco più di trent’anni, nel XV secolo, rese l’Albania indipendente. Come spiegare, al ritorno, che nonostante i problemi, le contraddizioni, l’abusivismo, un senso civico talvolta vacillante, un’identità ancora incerta fra passato e futuro, quest’Albania orgogliosa, in cui tutto può succedere e la bellezza è una conquista, ci ha resi tutti un po’ albanesi?

“Diremo forse anche noi che il mare è pazzesco e si mangia tanto e bene con due lire, per mantenere il segreto che l’Albania confida solo a chi vuole conoscerla davvero”.

di Daniela Mitta, giornalista (e coraggiosa turista)

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