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FOTO | Mozambico, il racconto: “Dopo il ciclone la gente non ha nulla”

Parla Joao Silva, cooperante della onlus italiana Weworld-Gvc che si trova a Chimoio, in una zona rurale, dove reagire alle conseguenze del ciclone è stato molto più difficile che in città

Pubblicato:27-06-2019 11:02
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:27
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ROMA – “Prima del ciclone Idai, qui, la gente aveva pochissimo. Ora non ha niente”. Joao Silva parla all’agenzia ‘Dire’ da Chimoio, provincia di Manica, nel Mozambico interno. Silva, portoghese, 26 anni, si trova a Chimoio come “program assistant manager” della onlus italiana Weworld-Gvc: “Seppure in quest’area i danni sono stati meno spettacolari rispetto a quelli registrati a Beira e in tutta la provincia di Sofala – spiega – nelle zone rurali di questa zona le persone erano molto meno preparate a reagire al disastro rispetto agli abitanti delle città”. È per questo, ad esempio, che Weworld-Gvc ha avviato, con il sostegno dell’Unicef, programmi per sensibilizzare gli abitanti dei villaggi sull’importanza di alcune pratiche igieniche: “Nella provincia di Manica, sto lavorando nell’area di Dombe: sono zone che si trovano ad altitudini molto basse e durante l’alluvione erano completamente inondate. C’erano case alte tre metri completamente sommerse” dice Silva, ricordando le scene degli inizi di marzo. “Come in altre aree, le inondazioni hanno portato feci e rifiuti verso i fiumi e il problema è che qui l’acqua di fiume si beve, così le persone rischiano di contrarre malattie come tifo e colera. Senza parlare dei coccodrilli, che sono un altro pericolo”.

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Il cooperante menziona anche il rischio malaria, acuito dalla maggiore umidità legata alle inondazioni. Per far fronte a questi problemi, attraverso l’intervento di emergenza, sono stati distribuiti secchi d’acqua da 50 litri e collocati bagni nei campi per sfollati. Da poco, si sta lavorando alla costruzione di toilette anche nelle case private e vengono distribuiti alle famiglie filtri per la potabilizzazione dell’acqua e istruzioni sulle precauzioni da prendere per evitare il diffondersi delle infezioni.

Tra le difficoltà, quella di entrare in contatto con i gruppi più isolati, spiega Silva: “Non ci sono mezzi di trasporto e alcune comunità si possono raggiungere solo attraversando due fiumi, a piedi o in canoa, e a volte l’ospedale più vicino è a 30 chilometri”. Per comunicare, gli operatori locali di Gvc-Weworld usano lo shona, una lingua bantu parlata nell’area: “Solo metà della popolazione, infatti, parla correntemente il portoghese”.

Oltre alle soluzioni di emergenza, la onlus lavora a progetti relativi al cambiamento climatico, di cui pure il ciclone Idai è stato una manifestazione, secondo diversi studi. “Ora sono qui per questi interventi di emergenza – racconta Silva – ma da Maputo mi sono occupato di programmi per l’adattamento dell’agricoltura alle trasformazioni del clima. In particolare, nelle aree di Namaasha e Boane, non lontano dal confine con lo Swaziland, pesantemente colpite dalla siccità legata al fenomeno ‘El Nino’, nel 2015. Le principali attività sono la distribuzione di semi, le cui varietà vengono scelte insieme alle comunità locali, e la riabilitazione di dighe per facilitare l’irrigazione dei campi. Lavoriamo poi, insieme alle associazioni degli agricoltori, al potenziamento dei sistemi di irrigazione“. Queste attività, gestite da un’altra ong anche in Swaziland, piccolo regno ridenominato lo scorso anno Eswatini, sono finanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics).

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