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In Italia 600mila malati di Alzheimer. Tra 20 anni saranno il doppio

Una recente ricerca svolta da Censis e Aima, rivela che il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro. "Evidente l'esigenza di cercare nuovi modelli assistenziali"

Pubblicato:27-05-2016 13:46
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 22:47

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ROMA – Più di mezzo milione di italiani affetti dalla malattia di Alzheimer, un dato destinato a raddoppiare nei prossimi 20 anni con effetti preoccupanti, se si pensa che ad oggi l’assistenza costa 11 miliardi di euro l’anno, in buona parte a carico delle famiglie dei malati. Questo lo scenario illustrato oggi durante il Corso di formazione professionale ‘Malattia di Alzheimer, cronaca di un’epidemia sociale’, che si è svolto oggi a Roma.

Una giornata di approfondimento durante cui, tra gli altri, sono intervenuti il presidente di Aifa, Mario Melazzini, il direttore dell’Istituto di Neurologia del Gemelli, Paolo Maria Rossini, e il presidente di Aima (Associazione italiana Malattia di Alzheimer), Patrizia Spadin.

L’evento è stato anche l’occasione per lanciare un appello, in un Paese come l’Italia, dove “il 22% della popolazione è ultrassessantenne (la malattia colpisce soprattutto dopo i 65 anni)- hanno fatto sapere gli esperti- ed è dunque evidente l’esigenza di cercare nuovi modelli assistenziali“. Anche perché, una recente ricerca svolta da Censis e Aima, rivela che il costo medio annuo per paziente è “pari a 70.587 euro e comprende i costi a carico del Servizio sanitario nazionale, quelli sostenuti direttamente sulle famiglie i cosi indiretti come gli oneri di assistenza, i mancati redditi da lavoro dei pazienti. Di questi ultimi, il 56,6% è seguito da una struttura pubblica, mentre il 38% delle famiglie deve ricorrere a una badante e il resto ai cosiddetti caregiver, membri della famiglia che si occupano dei malati. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa è inoltre senza impiego”.



Ha spiegato il presidente dell’Associazione italiana Malattia di Alzheimer: “Abbiamo raccolto i dati per fotografare la situazione italiana: negli ultimi 16/20 anni, per certi versi, la situazione è migliorata, per cui i servizi sanitari sono piu’ puntuali e precisi. Ma i pazienti non trovano ancora sul territorio i servizi che sono necessari a mantenere un equilibrio durante tutto il percorso di malattia. In italia ci sono 21 sistemi diversi, una per ogni regione, e quelli virtuosi sono pochi. Sono le regioni del nord, mentre al sud c’è il deserto. Considerato il fatto che i pazienti sono disorientati e hanno bisogno di punti di riferimento precisi, è chiaro che pensare a un pellegrinaggio verso altre regioni è un handicap. L’uniformita’ di trattamento piu che un ambizione è un diritto del paziente”.

Parallelo a quello dell’assistenza, c’è il discorso sulla ricerca, che potrebbe avere un ruolo cruciale poiché “la scoperta di un farmaco- hanno spiegato ancora gli esperti- capace di ritardare di soli 5 anni lo stato di perdita dell’autosufficienza del paziente, avrebbe un impatto significativo sui costi sociali e sanitari. Ma nonostante siano in corso molte sperimentazioni e siano stati fatti significativi passi avanti nella ricerca farmacologica, ancora non si ha una cura in grado di modificare la storia naturale della malattia, arrestando o rallentando il processo degenerativo”. Gli sviluppi piu’ recenti, ha quindi commentato Paolo Maria Rossini, direttore dell’istituto di Neurologia del Policlinico Gemelli di Roma, riguardano quello che viene ritenuto “il ‘killer’ principale e causa della malattia, una sostanza definita beta-amiloide, che si accumula in placche all’interno dei nostri malati e provoca una cascata di meccanismi che danno, alla fine, la morte dei neuroni”.


Intanto sono allo studio una serie di vaccini, di tipo attivo e passivo, che tendono “a bloccare o ridurre la presenza di questa sostanza- ha aggiunto Rossini- con la speranza che si possa determinare un rallentamento o l’arresto della malattia. Il problema è che questi farmaci agiscono soltanto se somministrati nella fase iniziale della malattia, quando questa lavora nel buio e i sintomi sono ancora poco evidenti o del tutto mancanti. Quindi bisogna mettere a punto un meccanismo per intercettare le persone ad alto rischio quando ancora hanno pochi o nessun sintomo- ha concluso il direttore dell’istituto di Neurologia del Policlinico Gemelli di Roma- e su queste intervenire con la vaccinazione”.


AIFA: FACILITARE RICERCA È FONDAMENTALE – “Per quanto riguarda l’Alzheimer si parla di immunoterapia attiva e passiva, quindi anche con anticorpi monoclonali. Diventa per questo fondamentale un percorso facilitante: bisogna agire in un’ottica di supporto costruendo modelli su trial clinici, ma soprattutto sugli indicatori. Bisogna agire anche su tutto cio che può essere precocemente dimostrato con degli indicatori e con dei marcatori biologici, al fine di intervenire in prevenzione nella fase pre clinica della malattia”, spiega il presidente di Aifa, Mario Melazzini, intervistato dall’Agenzia DIRE. “È un lavoro sinergico- ha aggiunto- che deve essere fatto fra tutte le istituzioni, ma ci deve essere anche un forte coinvolgimento dei pazienti. Questo diventerà ancora più fondamentale grazie al nuovo regolamento sulla sperimentazione clinica, la circolare 536 della Comunità europea, che entrerà in vigore nel 2018”.

di Flavio Sanvoisin, giornalista

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