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Msf: “A 2 anni dall’esodo in Bangladesh, Rohingya nel limbo”

De Gryse (responsabile): "Zero sforzi per far ritornare i profughi"

Pubblicato:26-08-2019 12:18
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:38

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ROMA – Due anni fa, a partire dal 25 agosto 2017, ben 745.000 Rohingya entravano in Bangladesh per fuggire dalla violenta operazione di sgombero nello Stato di Rakhine per mano dell’esercito del Myanmar. Lo ricorda Medici senza frontiere (Msf) in una nota, evidenziando che da allora sono stati fatti pochi progressi per riconoscere il loro status legale nell’area e affrontare le cause della loro esclusione in Myanmar.

A oggi inoltre secondo Msf, nessuna soluzione significativa è stata offerta ai Rohingya, costretti a vivere ai margini della società in tutti i paesi in cui si sono rifugiati. In Bangladesh, oltre 912.000 Rohingya continuano a vivere negli stessi piccoli ripari temporanei di plastica e bambù messi in piedi al loro arrivo e a causa delle restrizioni su spostamenti e possibilità di lavoro restano completamente dipendenti dagli aiuti umanitari.

Molte delle patologie che Msf tratta nelle proprie cliniche a Cox’s Bazar sono il risultato delle misere condizioni di vita che i Rohingya devono affrontare nei campi, a cominciare dallo scarso accesso all’acqua pulita e dal numero insufficiente di latrine. I medici, infermieri e psicologi della ong continuano a trattare decine di migliaia di pazienti al mese, e hanno effettuato oltre 1,3 milioni di visite mediche dall’agosto 2017 a giugno 2019.


Con i bambini impossibilitati a frequentare la scuola, le future generazioni hanno scarse possibilità di migliorare la propria condizione. “Negli ultimi due anni sono stati fatti pochissimi sforzi concreti per affrontare le cause della discriminazione dei Rohingya e consentire il loro ritorno a casa in sicurezza” dichiara Benoit de Gryse, responsabile delle operazioni Msf per Myanmar e Malesia.

“I Rohingya- ha proseguito- possono avere qualche possibilità di un futuro migliore, solo se la comunità internazionale rafforza gli sforzi diplomatici con il Myanmar e sostiene un maggiore riconoscimento legale per questo gruppo, che al momento non ha praticamente alcun potere”. Uno studio retrospettivo sulla mortalità condotto da Msf a dicembre 2017 ha rivelato che almeno 6.700 Rohingya sono stati uccisi in Myanmar nel primo mese dopo lo scoppio delle violenze, tra loro 730 bambini al di sotto dei 5 anni.

La storia di Bibi Jan

Msf nel comunicato riporta la vicenda di Bibi Jan, che ha perso due fratelli durante le violenze, e lei stessa è stata accoltellata come testimoniano le cicatrici sul braccio. Dopo che il suo villaggio è stato raso al suolo è fuggita in Bangladesh dove oggi vive con i figli, nel campo di Kutupalong. “Vorrei mandare i miei bambini a scuola- ha detto Bibi agli operatori MSf- ma non ho abbastanza soldi e non possiamo lasciare il campo. È difficile pensare al futuro dei miei figli. Con un lavoro non avremmo bisogno delle distribuzioni di cibo ma potremmo vivere con le nostre forze”.

La storia di Anwar

Anwar, rifugiato Rohingya di 24 anni che vive nel campo di Kutupalong, era un insegnante in Myanmar. “Stiamo soffrendo qui. Siamo depressi, la situazione nel nostro paese è molto deprimente. Dove andremo a vivere? Siamo sconvolti dalle condizioni di vita nel campo. Non abbiamo abbastanza cibo. Vogliamo solo tornare a casa, non voglio restare un secondo di più. La nostra speranza è di trascorrere la nostra vita in Myanmar”.

Quanto ai rohingya rimasti in Myanmar, secondo Medici senza frontiere la situazione resta desolante: l’ong denuncia il “limbo” a cui la legge sulla cittadinanza del 1982 li ha condannati, poiché li ha resi a tutti gli effetti apolidi. Negli ultimi anni sono stati privati di ancor più diritti: dall’inclusione civica al diritto all’istruzione, dalla possibilità di sposarsi alla pianificazione familiare, dalla libertà di movimento all’accesso alle cure mediche. Nel 2012 la violenza tra i rohingya e le comunità dello stato del Rakhine ha portato alla distruzione di molti villaggi. Da allora, circa 128mila musulmani Rohingya e Kaman nel Rakhine centrale vivono in campi sfollati sovraffollati e precari, poiché viene negata loro la libertà di movimento, di lavoro, nonché l’accesso ai servizi di base, dipendono esclusivamente dagli aiuti umanitari.

“Non ci sono reali opportunità di lavoro qui, quasi non ci sono pesci da pescare. Non riusciamo nemmeno a comprare le cose che vogliamo perché qui non ci sono commerci” osserva Suleiman, un Rohingya a Nget Chaung, area in cui vivono circa 9mila persone. “Le persone qui sono tristi, frustrate di non poter andare da nessuna parte né fare qualcosa. Teniamo dentro di noi la frustrazione- ha detto ancora Suleiman agli operatori di Msf- perché non possiamo parlare della nostra situazione, non ci sono spazi per farlo. Non possiamo nemmeno spostarci verso la città più vicina, siamo in gabbia”.

Tra i 550mila e i 600mila Rohingya sono rimasti a vivere nello stato del Rakhine. Le loro condizioni di vita, già difficili, sono ulteriormente peggiorate con l’inasprirsi del conflitto tra l’esercito del Myanmar e quello dell’Arakan, un gruppo armato etnico del Rakhine. Anche in Malesia, paese verso cui fuggono da oltre 30 anni, i Rohingya si trovano in un limbo. La mancanza di uno status giuridico li porta, insieme agli altri rifugiati e richiedenti asilo, a vivere in una crescente condizione di precarietà. Non potendo lavorare legalmente, finiscono nel mercato nero, sfruttati, a volte costretti alla schiavitù per aver contratto debiti ed esposti a incidenti sul lavoro. Perfino mentre camminano per strada o cercano cure mediche possono essere presi e reclusi in centri di detenzione o finire vittime di estorsione.

La storia di Iman Hussein

Iman Hussein, 22 anni, è fuggito dallo stato del Rakhine nel 2015, e dopo un periodo in Thailandia è arrivato a Penang, in Malesia. Come molti rifugiati, si è guadagnato da vivere lavorando nel settore edile a Penang, in forte sviluppo. Da 10 settimane non riceve più lo stipendio ma non ha altra scelta se non quella di continuare a lavorare perché sarebbe ancora più in difficoltà nel caso decidesse di smettere.

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