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Caso Moro, la verità va riscritta: Abu Sharif conferma le incongruenze

Caso Moro, molte incongruenze nella ricostruzione della strage di via Fani. Abu Sharif: "Le BR non erano cosi' professionali"

Pubblicato:26-06-2017 15:49
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:27

aldo moro
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ROMA – Una colpo perfetto, forse troppo. Dietro alla strage di via Fani che portò al rapimento di Aldo Moro e all’uccisione dei 5 agenti della sua scorta “non c’erano le Brigate Rosse, ma gli Stati Uniti“. A rilanciare la tesi di un coinvolgimento di forze diverse da quelle delle BR è Bassam Abu Sharif, ex leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FLPL), in audizione in Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro.

Le dichiarazioni di Abu Sharif, storico collaboratore di Arafat negli anni ’70 e ’80, potrebbero non essere solo frutto di fantasia ma, anzi, sembrano confermare le novità scoperte dalla Commissione parlamentare di inchiesta. Sharif, infatti, non crede che “le Brigate Rosse avessero la possibilità di uccidere cinque guardie del corpo senza nemmeno ferire Moro”.


L’ex esponente della resistenza palestinese ha combattutto sul campo e conosce le difficoltà che comporta un’azione come quella compiuta in via Fani. “So di cosa parlo- ribadisce- so quanto sia difficile colpire un bersaglio mobile e quanta precisione serva per colpire cinque guardie del corpo. Questa è professionalità di alto livello, serve un addestramento molto elevato e chi ha rapito Moro si è addestrato a colpire almeno 10mila bersagli mobili: le BR non erano cosi’ professionali“.

Secondo Sharif, quindi, il commando che è riuscito a fermare le due auto della polizia ed eliminare 5 agenti senza neanche ferire Aldo Moro era composto da corpi specializzati, quindi “Cia o Gladio, magari uomini dell’intelligence o da un team di forze speciali”.

LE INCONGRUENZE DELLA STRAGE

A 39 anni di distanza, sulla strage di via Fani restano più ombre che luci. La commissione parlamentare di inchiesta è stata riaperta nel 2014, dopo le rivelazioni di un agente del Sismi che testimoniava la presenza dei servizi segreti italiani durante l’attacco. Da quel momento, i nuovi fatti emersi hanno portato la commissione d’inchiesta a riscrivere la verità storica.

Le incongruenze sono tante, a partire dal numero dei terroristi del commando: nove, secondo le contraddittorie testimonianze dei brigatisti, almeno venti secondo la relazione della Commissione approvata sia dalla Camera che dal Senato. Una scena del crimine piuttosto affollata, che trova però conferma nella relazione del Procuratore della Repubblica Luigi Ciampoli che, nella sua ricostruzione dei fatti del 16 marzo 1978, parla della presenza di “elementi dei servizi segreti deviati dello Stato, uomini della mafia romana e di servizi segreti stranieri“. Secondo il procuratore Ciampoli, inoltre, in via Fani vi erano almeno due persone che parlavano in tedesco.

A finire sotto la lente di ingrandimento della Commissione è, in particolare, la dinamica dell’agguato. Secondo i brigatisti, infatti, i colpi diretti alle macchine sarebbero stati esplosi solo dal lato sinistro, mentre le ricostruzioni balistiche hanno ormai accertato che gli assalitori hanno sparato anche da destra.

Proprio da quel lato di via Fani era presente il bar Olivetti, punto di ritrovo della malavita romana, frequentato dai maggiori esponenti della Banda della Magliana e dei Nar, Renatino de Pedis e Massimo Carminati, ma anche dal boss italoamericano Tano Badalamenti e da Camillo Guglielmi, vice comandante generale di Gladio.

Stando alle ricostruzioni ufficiali, il giorno dell’attacco il bar risulta chiuso per fallimento. Ma secondo l’onorevole Gero Grassi (PD), membro della Commissione d’Inchiesta sul Caso Moro, non è così: c’erano dei testimoni, infatti, “che affermavano che il locale fosse aperto, che non avrebbe mai tolto le fioriere, l’arredamento e che dopo 15-20 giorni dal rapimento Moro il bar avrebbe riaperto tranquillamente”.

Un’ultima novità inquietante è quella che riguarda il ruolo del consulente inviato dal Dipartimento di Stato Usa per affiancare le autorità italiane nella gestione del sequestro, Steve Pieczenik. Contro di lui, il procuratore Ciampoli ha infatti chiesto di procedere per “concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978” per aver contribuito a far apparire la morte dell’ostaggio come “lo sbocco necessario e ineludibile, per le Br, dell’operazione militare attuata in via Fani”.

“MORO AVEVA UNA VISIONE PER L’ITALIA E L’EUROPA, LO HANNO UCCISO PER QUESTO”

Se la verità sulla strage di via Fani va riscritta, allora calano pesanti ombre anche sulle motivazioni che portarono all’uccisione di Aldo Moro. Davanti alla Commissione, Abu Sharif dice la sua: “Moro aveva una visione strategica per l’Italia, l’Europa e il mondo. Dopo De Gaulle, Moro è stato il punto di svolta per tutta l’Europa. Chi lo ha ucciso ha dunque voluto uccidere la visione e l’idea di Moro”.

Dalla seconda guerra mondiale in poi, continua Abu Sharif, “gli Stati Uniti hanno sempre sventolato la bandiera della libertà dei popoli, ma ben presto s’è capito che dietro era in corso una lotta essenzialmente economica. Da una parte gli Stati Uniti proclamavano l’indipendenza di tutti gli Stati e dall’altra, attraverso il piano Marshall, si creava un nemico, ovvero l’Unione Sovietica, per poter così sottomettere l’Europa al dominio americano. Ora Trump va nei Paesi arabi e firma contratti per 500 miliardi dollari mentre i bambini arabi sono sotto la soglia di povertà. Moro invece voleva contratti equi e questo non piaceva ad una superpotenza che ha voluto fermare la corrente del cambiamento“, termina l’ex leader FLPL.

di Michele Bollino

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