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Sudan, i rifugiati siriani a Khartoum: “Non ci aiuta neanche l’Onu”

La testimonianza: "Da 5 giorni niente pane, ma a Damasco non torniamo"

Pubblicato:26-04-2023 14:00
Ultimo aggiornamento:26-04-2023 14:00

khartoum sudan
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ROMA – “Quattro persone del nostro gruppo sono già morte, tra loro c’erano un bambino e poi Oman, che lavorava con me, e lascia moglie e figli. Sono rimasti uccisi nei combattimenti a Khartoum. Vogliamo andarcene dal Sudan, è troppo pericoloso, ma non possiamo tornare in Siria perché anche laggiù c’è la guerra. E l’Onu non vuole aiutarci. Vorremmo solo una vita normale. Come potevamo immaginare tutto questo?”

Ahmad – un nome di fantasia – è un rifugiato siriano di 26 anni, e da cinque vive e lavora a Khartoum, dove è riuscito a completare le scuole superiori, interrotte a causa del conflitto civile nel suo Paese di origine, e a trovare un impiego in un’azienda. Scontri e raid aerei però lo hanno nuovamente raggiunto, da quando il 15 aprile la rivalità tra l’esercito del Sudan e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) è deflagrata, provocando centinaia di vittime e costringendo migliaia di persone a fuggire. Ma per Ahmad e i suoi compagni lasciare il Paese ora è impossibile: i combattimenti continuano nelle strade, nonostante le speranze di cessate il fuoco, e questo rende troppo pericoloso il viaggio verso città più sicure come Port Sudan. Così, riferisce Ahmad alla Dire, il gruppo si è rivolto all’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), che in queste ore sta aiutando gli sfollati sudanesi, in particolare i 20mila che hanno già raggiunto il vicino Ciad. “Ci hanno risposto”, dice Ahmad, “di non poter fare niente e di rivolgerci alla nostra ambasciata, come se non sapessero che non possiamo”.

Il Sudan è firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e infatti ha accolto almeno 90mila persone in fuga dalla Siria, secondo stime Onu del 2021. Nel Paese mediorientale la guerra cominciata nel 2011 ha spinto milioni di persone a lasciare il Paese per il rischio di violenze e persecuzioni delle quali sono accusate sia i gruppi armati che il governo di Damasco. “Non possiamo tornare e ben pochi Paesi concedono visti d’ingresso ai siriani” dice Ahmad. “L’Alto commissariato lo sa ma non sta facendo niente e quattro di noi sono già morti”.


Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), sarebbero invece 11 le vittime provocate dagli scontri in Sudan. Contattati per un commento, i responsabili della sede dell’Unhcr in Sudan non hanno per ora risposto. Ahmad continua a elencare le difficoltà: “Vorremo raggiungere Port Sudan in auto (dove si trova il più vicino aeroporto, dopo che quello di Khartoum è stato messo fuoriuso, ndr), ma carburante e viveri scarseggiano per la paralisi dei commerci e i saccheggi mentre, con le banche chiuse, non possiamo ritirare denaro agli sportelli o ai bancomat. I contanti stanno finendo. Ora viviamo in otto in un appartamento dove ci siamo spostati dopo lo scoppio delle violenze. In casa abbiamo circa 30 litri d’acqua. Ce la procuriamo grazie a persone che vanno a riempire le taniche nel Nilo. Usciamo solo per procurarci cibo ma da cinque giorni il pane non si trova. Ci muoviamo solo quando vediamo un buon movimento di civili, perché abbiamo paura di soldati e miliziani nonché dei ladri. Voglio andarmene da qui. È mio diritto di essere umano vivere in un posto sicuro“.

Molti cittadini stranieri residenti hanno ottenuto supporto dalle loro ambasciate e vari aerei militari sono già decollati. Una fonte interna al ministero degli Esteri siriano, così come riporta l’agenzia di stampa Suna, il 23 aprile ha invitato i connazionali che vogliono lasciare il Paese a recarsi in ambasciata per registrare nelle liste. Ahmad, che ha lasciato Homs, città roccaforte dell’opposizione al regime siriano e per questo vittima tra le altre cose di un assedio da parte dell’esercito durato oltre tre anni, sottolinea però che per lui e i suoi compagni questa opzione non è praticabile.

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