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Competenza tecnica, incompetenza politica

Adriana Vigneri per www.ytali.com In "Contro la democrazia" Jason Brennan si colloca nella schiera

Pubblicato:26-04-2018 15:11
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 12:49

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Adriana Vigneri per www.ytali.com
In “Contro la democrazia” Jason Brennan si colloca nella schiera di coloro che non solo constatano l’indebolimento della mediazione compiuta dai partiti organizzati, la rifiutano proprio. E propugna il governo dei competenti. Il libro di Jason Brennan* – che negli USA è un bestseller – si inserisce con originalità e con ricchezza di argomentazione nella sequenza neanche troppo recente di libri che mettono in discussione la democrazia occidentale, tipicamente rappresentativa, a favore della democrazia diretta, della democrazia deliberativa, o di forme ancora più lontane e controverse. Per fare soltanto qualche richiamo, i filosofi Ben Saunders e Alex Guerrero hanno difeso sorteggi e lottocrazie, sistemi in cui il potere è distribuito a caso. Robin Hanson, economista e Michael Abramowicz, giurista economico, hanno sostenuto che per scegliere le nostre politiche dovremmo usare la tecnica dei mercati delle scommesse, futarchy o predictocracy. Per venire alla stampa italiana, qualche giorno fa Nadia Urbinati scriveva su la Repubblica che se destra e sinistra non hanno più senso, e ad esse si sostituisce soltanto il discrimine morale, perché votare? Meglio usare il sorteggio (tra candidati immacolati). Ma era soltanto una provocazione.

Brennan in realtà non si discosta dalla democrazia rappresentativa, dimostra anzi che altre forme, come la democrazia deliberativa, non sono un correttivo efficace. Ancor meno sostiene la democrazia diretta. Semmai, come vedremo, ha aspetti che solleticano il populismo. Brennan vorrebbe soltanto migliorare il funzionamento della democrazia rappresentativa superando il suffragio universale, che consente ad una massa di elettori che non sanno nulla di politica di conferire il potere di legiferare e governare ad una minoranza di eletti, per lo più incompetenti e corrotti. Secondo l’autore per essere ammessi al voto occorrerebbe dimostrare di avere un certo numero di informazioni su chi ha governato, sulle scelte compiute, sulle possibili opzioni politiche e di governo e sui relativi probabili effetti. È questo che chiama epistocrazia (termine greco che significa “conoscenza scientifica”), il governo dei competenti.

Nonostante tutti i recenti rivolgimenti, nel mondo occidentale siamo ancora legati all’idea che il diritto di voto debba spettare a tutti, al di sopra di una determinata soglia di età (soglia discutibile e discussa). Ad esempio la Costituzione italiana prevede che il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge. È per questo che Brennan si preoccupa anzitutto di demolire il principio di uguaglianza politica, definendo il diritto di voto un potere, che non può essere dato in mano a chi ne farebbe cattivo uso; in secondo luogo demolendo l’idea che partecipazione politica sia un bene in sé, ché anzi essa corrompe.

Secondo J. Brennan non c’è un diritto fondamentale a votare e ad essere eletti (l’elettorato attivo e passivo che concepiamo come diritti), come c’è invece un diritto a praticare la propria religione o ad esprimere le proprie opinioni. Per la ragione che un elettorato non è un individuo (che è libero di farsi del male, affari soltanto suoi), un elettorato è un insieme di soggetti che la pensano diversamente. Se alcuni incompetenti (che in un dato momento costituiscono una maggioranza) impongono decisioni sugli altri (l’esercizio del diritto di voto è esercizio di un potere) non danneggiano soltanto se stessi, ma tutti.


Quindi occorrerebbe spiegare perché alcune persone hanno diritto di imporre cattive decisioni agli altri. Occorrerebbe giustificare la democrazia, occorrerebbe spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo “incompetente”. In questo l’autore non è solo, neppure in Italia. Il professore della LUISS che ha scritto l’introduzione al libro, Raffaele De Mucci, ritiene che nel dettare regole sull’elettorato il diritto attuale sia quasi indifendibile.  Avrebbe più cose in comune con il diritto divino dei re di quanto si pensi. Come dire che l’attribuzione a tutti i cittadini dell’elettorato è priva di giustificazioni, così come ci appare ingiustificabile il potere assoluto del re, che avrebbe origine divina.

A questo punto occorre chiarire che nel linguaggio di Brennan gli elettori sono, o hobbit (apatici che non sanno nulla di politica) o hooligan (si informano di politica ma sono partigiani). Oppure vulcaniani, che invece pensano la politica in modo scientifico e razionale, ma sono una piccola minoranza. Quindi il suffragio universale è giustificabile soltanto se non esiste nulla di meglio. L’epistocrazia potrebbe essere quel meglio.

Siamo così all’altro aspetto caratteristico e fondamentale del lavoro di Brennan: il superamento della politica, che fa da substrato all’intera esposizione. Lo si capisce da tutto il libro, ma basta anche soltanto questa frasetta: pensare in modo scientifico e razionale la politica.  Non esiste, per chi scrive, questa possibilità, perché la politica è scelta, non teorema, è semmai doxa, non episteme. Che la politica si affidi alla tecnica è sempre avvenuto nelle fasi di crisi e di passaggio, ma ora si ricorre alla tecnica, agli scienziati, anche nella normalità di una trattativa politica per formare un governo (si veda la stesura fatta da professori universitari in luogo dei politici di Un accordo per il governo dell’Italia, tra il Movimento 5 Stelle e…?). Si tratta di una “furbata” e di una implicita ammissione di incapacità? Oppure, come sostiene Mauro Scalise sul Mattino, una importante innovazione? Se l’innovazione consistesse soltanto nel puntellare la scarsa affidabilità del Movimento, saremmo sempre nella categoria delle furbate. Se invece la novità considerata positiva fosse che la scienza revisiona corregge chiarisce e sintetizza la politica, si dovrebbe segnalare anche questo caso come un passo verso ciò che è giusto ed accettabile, e non è politico e quindi infido e sporco.

È così importante questa impostazione nel lavoro di Brennan che egli colloca il relativo manifesto all’inizio del primo capitolo, in cui trascrive alcune righe di John Adams, secondo Presidente degli Stati Uniti: Devo studiare la politica e la guerra affinché i miei figli abbiano la libertà di studiare matematica e filosofia. I miei figli dovranno studiare matematica e filosofia, geografia, storia naturale, ingegneria navale, navigazione, commercio e agricoltura, per dare ai loro figli la possibilità di studiare pittura, poesia, musica, architettura, scultura, ricamo e ceramica. Discorso affascinante, che ci restituisce un animo nobile e perspicace. Che dà la prospettiva del miglioramento, dell’innalzamento del genere umano, che sfocia nell’utopia: per realizzare quel paradiso terrestre ci vorrà pur sempre la politica.
Il libro ha dichiaratamente lo scopo di spiegare perché dovremmo provare a realizzare quella speranza.

In tutti i ragionamenti di Brennan dunque manca la politica, nonostante dica che occorre conoscere la politica per poter votare. Esistono per lui risultati “giusti” che la democrazia dovrebbe produrre, e non produce perché non è rispettato il principio di competenza (ma chi giudica ciò che è giusto?). Inoltre la sua analisi si rivolge sempre e soltanto agli individui, non ai gruppi organizzati e tanto meno ai partiti. Ad esempio, dice: l’esercizio del voto non ci dà potere come individui, né accresce la nostra libertà personale. La democrazia dà potere semmai ai gruppi, alla maggioranza del momento. Quindi: non è vero che i diritti politici siano un bene per gli individui;  non è giusto che i singoli abbiano i diritti politici perché non è dimostrato che serva a qualche cosa (per il singolo). Questi argomenti servono all’autore per liberarsi dal problema di riconoscere a tutti i diritti politici, e poter patrocinare appunto l’epistocrazia, i diritti elettorali o la prevalenza dei diritti elettorali ai soli competenti.

Nello stesso tempo egli riconosce che – anche se l’elettorato chiamato alle urne è sistematicamente incompetente – vi sono fattori di mediazione che possono essere sufficienti a spiegare perché molte delle decisioni prese dai governi democratici sono competenti. Sono fattori di mediazione: le forme ammesse di contestazione politica; l’attività delle grandi burocrazie pubbliche; le frequenti elezioni (dei vari livelli, è da ritenere); il ceto politico, che è più informato; i partiti politici, che decidono poi indipendentemente dai desideri degli elettori (incompetenti). Ciascuno di questi fattori – dice Brennan – tende a ridurre il potere delle maggioranze elettorali, spostandolo nelle mani dei cittadini più informati. Contrappesi epistocratici.

Si potrebbe aggiungere a questo punto – come ha fatto Sabino Cassese nella prefazione al libro – che il potere (sia negli USA sia in Italia) è già in larga misura messo nelle mani di soggetti competenti, in Italia funzionari amministrativi e giudici dei diversi gradi e tipi, autorità amministrative indipendenti. Che si vota per i comuni, per le regioni e per il governo regionale, per due camere. Che vi è una Corte costituzionale che controlla le leggi.
Ma questi contrappesi non risolvono affatto il problema, secondo Brennan, che usa l’argomento del valore attribuito alle scelte che si compiono nel momento delle elezioni: se si ritiene che nelle elezioni siano in ballo scelte fondamentali, i fattori di mediazione post elettorale contano poco e il principio di competenza sarebbe comunque violato. Se nelle elezioni si compiono scelte poco rilevanti, questo sarebbe un argomento contro la democrazia.

In breve, o l’elezione conta poco, e allora i sostenitori della democrazia si danno la zappa sui piedi. Oppure conta molto, e allora i fattori di mediazione non rilevano. Argomentazione forse un po’ sbrigativa, ma è così che Brennan si libera dell’argomento. Possiamo fare a questo punto una prima considerazione: i fattori di compensazione presi in considerazione sono soltanto quelli post voto. Il voto è sempre configurato come il fatto di un singolo individuo, con la sua incompetenza e i suoi bias cognitivi (i votanti, ricordiamo, sono o hobbit o hooligan). I partiti politici sono considerati in quanto dispongono del potere conferito loro dall’elezione (che usano contro le aspettative dei cittadini). Non in quanto formano e selezionano il ceto politico, e, come dice la Costituzione italiana, consentono ai cittadini di assoociarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49).

Nella costruzione democratica contenuta nella nostra Costituzione il ruolo dei partiti è essenziale e si colloca prima, non dopo il voto. Incide sulla competenza di chi vota, e incide sulla scelta di chi deve effettivamente godere dell’elettorato passivo, che viene sottratto a maggior ragione all’incompetenza. Nello stesso tempo tutti i cittadini vanno liberati dagli ostacoli che impediscono loro l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese.

Si misura così la gravità della situazione, dal punto di vista della qualità democratica, che si è determinata con la scomparsa del ruolo che era svolto dai partiti (e considerato essenziale dalla nostra Costituzione). Da questo punto di vista Brennan si colloca nella schiera di coloro che non solo constatano l’indebolimento della mediazione compiuta dai partiti organizzati, la rifiutano proprio, in nome di un collegamento diretto tra i cittadini e gli eletti (qui tracce di populismo). Salvo che subito se ne discosta, perché questo collegamento nella sua visione non avrebbe nulla di positivo, essendo inficiato dall’incompetenza.

La liquefazione dei partiti determina e spiega l’impostazione atomistica, individualistica dell’autore. Che apre indubbiamente una serie molto grave di problemi, a cui tuttavia è difficile rimediare con il governo degli esperti. Le tesi di Brennan per il governo degli esperti partono dalla constatazione dell’incapacità dei cittadini di votare sia per gli scopi, sia a maggior ragione per i mezzi adatti a raggiugerli. Tra le possibili soluzioni prese in esame – il suffragio ristretto (a chi supera un esame di scienza politica), il voto plurimo (conferito a chi sa), il suffragio per sorteggio (i pochi sorteggiati vengono poi formati) e il suffragio universale con veto epistocratico – sembra che l’autore propenda per quest’ultimo, in cui votano tutti, ma un consiglio epistocratico può disfare le leggi. Quest’ultimo metodo conserverebbe ciò che è desiderabile in una democrazia, fornendo contemporaneamente dei contrappesi all’irrazionalità e all’incompetenza democratica. È antidemocratico? No dice Brennan, così come non consideriamo antidemocratica la Corte costituzionale (che può eliminare le leggi), così non dovremmo considerare antidemocratico un consiglio epistocratico fornito di serie competenze. In un periodo storico in cui – per la crisi dei partiti, per l’insufficienza scolastica, per le gravi carenze nell’attuazione dell’art. 3, seconda parte, della Costituzione, per l’avvento di internet – le tendenze politiche dei cittadini si formano molto attraverso le reti, i social networks, si può essere tentati di introdurre elementi di epistocrazia, evitando per quanto possibile i rischi di manipolazione. In ogni caso, il problema è aperto, ed è un’illusione, molto probabilmente, tentare di risolverlo con i mezzi di una volta.

 

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