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Morire di sete. In Veneto

Sono passati quattro anni da quando è cominciata l'emergenza inquinamento dell'acqua nel vicentino e una soluzione del problema sembra ancora lontana

Pubblicato:26-04-2017 14:46
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:09

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di Anna Collarin, Laureata in Chimica Industriale a Ca’ Foscari, ha lavorato all’Arpav e ora è insegnante di Scienze

Si parla già dell’area colpita dall’inquinamento da PFAS come della “terra dei fuochi” veneta: si tratta infatti di un inquinamento diffuso, persistente e che colpisce la popolazione per esposizione diretta, anche se le sostanze in questione non hanno una comprovata cancerogenicità (al momento per insufficienza di prove) e gli studi epidemiologici condotti dalla Regione in seguito all’emergenza non rivelano per ora un’incidenza di tumori differente da quella della popolazione media del Veneto.

Tuttavia, proprio lo studio dei dati epidemiologici della popolazione esposta a questi inquinanti potrebbe aiutare a definire meglio i loro effetti sulla salute, così come è stato per un caso analogo di inquinamento dell’acqua potabile in Ohio e West Virginia, da cui si sono ricavati la maggior parte degli studi medici ora a disposizione.


Quando, nel 2013, si delinea il quadro dell’inquinamento da PFAS che ha colpito le fonti di approvvigionamento idropotabile del Vicentino, questi composti sono poco familiari persino agli addetti ai lavori. L’acronimo PFAS sta per “sostanze perfluoro-alchiliche”: si tratta di inquinanti di difficile degradabilità ed estremamente persistenti nell’ambiente, tanto che la loro presenza è stata rilevata persino ai Poli. Il più diffuso di loro, il PFOA, è impiegato nella produzione di fluoropolimeri e fluoroelastomeri come il PTFE, commercializzato con il nome di Teflon.

La pericolosità biologica dei PFAS consiste nel fatto che si accumulano a lungo nel fegato e nel sangue (i tempi di dimezzamento nell’organismo sono stimati tra i due e i nove anni). La tossicità acuta è bassa ma si comportano come interferenti endocrini, mimando l’azione di alcuni ormoni ed esercitando una potenziale azione di perturbatori dell’attività endocrina: in particolare, è classificata come probabile la loro correlazione con disfunzioni della tiroide, con i tumori del rene e del testicolo, e molte altre patologie.

Sostanze poco note e non analizzate abitualmente nelle acque potabili, dicevamo. Non a caso, vengono scoperte nell’ambito di una ricerca che il CNR, in accordo con il Ministero dell’Ambiente, sta conducendo sulla presenza di “sostanze chimiche contaminanti rare” nei bacini fluviali italiani. In Veneto, il monitoraggio interessa le acque superficiali e i reflui industriali e di depurazione del reticolo idrografico della provincia di Vicenza e, in particolare, del distretto industriale di Valdagno e Valle del Chiampo.

Il territorio è scelto per la sua particolare vulnerabilità ambientale: infatti, è la sede del più importante distretto conciario italiano, nonché della Miteni SpA, stabilimento di fluorocomposti ubicato a Trissino, che in seguito verrà additato da molti tra le principali fonti dell’inquinamento da PFAS in attività (sul proprio sito l’azienda cerca di chiarire la sua posizione in merito).

Oltre a campioni ambientali, si analizzano alcuni campioni di acqua potabile raccolti in più di trenta comuni nella provincia di Vicenza e in zone limitrofe delle province di Padova e Verona. Le analisi evidenziano un inquinamento diffuso di sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS) in concentrazioni che, nelle acque potabili, sia quelle distribuite da acquedotti pubblici sia quelle attinte da pozzi privati, raggiungono in alcune zone valori superiori a 1000 ng/l (nanogrammi per litro) per il PFOA e 2000 ng/l per i PFAS (la zona maggiormente interessata dalla contaminazione corrisponde a quella che insiste sul Bacino di Agno-Fratta Gorzone).

La presenza delle sostanze nei pozzi privati non è irrilevante: l’acqua in questione viene comunemente usata per l’irrigazione, quindi la contaminazione può passare ai prodotti agricoli e zootecnici; inoltre, la vulnerabilità intrinseca di questo tipo di fonti dipende anche dal fatto che, a differenza delle acque di acquedotto, non vengono analizzate in maniera sistematica e, in assenza di particolari emergenze, l’onere del controllo è affidato ai privati (ora la Regione si muove, ovviamente, nell’interesse comune).

Il problema è che PFOS e PFOA non sono sostanze incluse tra quelle la cui concentrazione è normata dalla legislazione vigente sulle acque potabili (D.lgs. 31/2001): la norma prescrive che le acque potabili “non devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana”, ma le sostanze esplicitamente prese in esame negli allegati sono un numero molto ridotto.

Al momento della scoperta dell’inquinamento da PFAS in Veneto, in ambito europeo esiste solo un’indicazione della Commissione per le acque potabili tedesca, risalente al 2006, che aveva fissato un limite alla concentrazione di PFOA di 300 ng/l per esposizioni a lungo termine e che verrà poi adottato anche dalla Danimarca. Nel Regno Unito, il valore guida indicato dal Drinking Water Inspectorate per il PFOA era invece di 5000 ng/l. Ben più cauta, a causa del già citato caso di inquinamento in Ohio e West-Virginia, è l’US Environmental Protection Agency, che stabilisce un limite di riferimento di 70 ng/l. Non risultano limiti di riferimento proposti da altri paesi europei.

La Regione Veneto, quindi, è costretta a chiedere il supporto tecnico-scientifico dell’Istituto Superiore della Sanità e del Ministero della Salute, che in una nota del 29 gennaio 2014 stabilisce in via provvisoria i seguenti “livello di performance”: PFOA: 500 ng/l; somma degli altri PFAS: 500 ng/l. I livelli di performance sono definiti come valori raggiungibili mediante l’applicazione di efficaci processi di trattamento delle acque, e rappresentano un “valore obiettivo provvisorio tossicologicamente accettabile”.

Quella dei limiti di concentrazione è una delle questioni sollevate dalla diffida che il sindaco di Lonigo e gli altri firmatari hanno inviato agli Enti ritenuti competenti a fine febbraio 2017: perché, in uno scenario di contaminazione conclamato, i limiti stabiliti dall’ISS sono “del tutto ed inspiegabilmente” più alti rispetto a quelli stabiliti da altre nazioni, “stante la necessità, ritenuta da tutti gli esperti del settore, di applicare, al caso in esame, la massima tutela possibile”? Inoltre, si sottolinea nello stesso documento, nessuno dei limiti cautelativi proposti è entrato a far parte della normativa comunitaria o nazionale: ciò significa che tali limiti non sono ancora diventati “limiti di legge”.

Limiti o no, è già evidente dalle analisi preliminari del CNR che la Regione Veneto è in un mare di guai di cui deve stabilire i confini. Con una nota del 24 maggio 2016, la Regione individua la zona coinvolta dall’emergenza PFAS servita dalle reti acquedottistiche inquinata: essa coinvolge 21 comuni, 127.000 abitanti, di cui 109.029 serviti dalle suddette reti acquedottistiche.

Molto prima di ufficializzare questa definizione geografica, la Regione attua una serie di azioni strutturali ed epidemiologiche, coordinate da un’apposita Commissione Tecnica Regionale, al fine di contenere l’emergenza. La prima cosa da fare è limitare la presenza di PFAS che arriva al rubinetto dei cittadini: per farlo, gli Enti Gestori dei servizi idrici integrati applicano dei filtri a carbone attivo a monte del sistema di distribuzione. Contemporaneamente, si avvia un monitoraggio ambientale specifico che individua le fonti di inquinamento e permette di controllare e definire l’entità dello stesso.

Infine, tra il 2015 e il 2016, si avvia un biomonitoraggio che mette a confronto il contenuto di PFAS nel sangue della popolazione esposta all’inquinamento con quello degli abitanti di sette comuni ubicati nella pianura veneta ma non coinvolti dall’esposizione. Il risultato è sconcertante: la concentrazione media riscontrata nel primo campione è superiore di  dieci volte rispetto a quella del campione di controllo, con punte di oltre 40 volte nei comuni maggiormente colpiti.

Esi arriva così a oggi. L’uso della parola “emergenza” riferita ai PFAS, che poteva essere giustificato a pochi mesi dalla scoperta, a quattro anni dal primo monitoraggio del CNR comincia a diventare improprio. E così, forse tenendo a mente che niente in Italia è più definitivo del provvisorio, il sindaco di Lonigo, assieme ad altri otto sindaci del Basso Vicentino e Bassa Veronese, il 28 febbraio 2017 ha sottoscritto una lettera di diffida rivolta al Governo (ministri della Salute, Ambiente, Agricoltura), agli assessori regionali (Sanità, Ambiente, Agricoltura), al presidente della provincia, al procuratore della Repubblica di Vicenza, al prefetto di Vicenza e al direttore generale dell’Ulss 8.

Nella lettera, oltre alle già citate osservazioni sull’inadeguatezza dei limiti indicati dall’ISS, il sindaco di Lonigo rimanda a un allegato tecnico in cui si riportano i dati epidemiologici di un’indagine del SER (Sistema Epidemiologico Regionale) sulle orchiectomie per tumore al testicolo registrate tra la popolazione dei comuni colpiti nel periodo 1997-2014. Sarà anche vero che, mediamente, i casi registrati non sono superiori alla media regionale, ma nel comune di Lonigo, il più interessato dall’inquinamento da PFAS, essi sono addirittura il doppio di quelli attesi.

Non c’è da stare tranquilli, perché è proprio sull’esposizione prolungata alle basse dosi, e non sulla tossicità acuta, che i PFAS procurano il danno maggiore. E cosa c’è di più continuato di un uso decennale dell’acqua potabile del rubinetto di casa?

I sindaci chiedono, per prima cosa, che i gestori degli acquedotti adottino le migliori tecnologie per abbattere i PFAS a livelli paragonabili allo zero; e poi, guardando le cose nel medio periodo, l’allacciamento a nuove fonti non inquinate.

Infine diffidano gli Enti in indirizzo

in ossequio all’art. 32 della Costituzione ed al principio di massima precauzione, sancito dal diritto comunitario e dall’art. 3-ter del D.lgs. n. 152/2006, al fine di fronteggiare la minaccia di danni gravi ed irreversibili per cittadini, ad imporre a tutte le attività da cui possano originare emissioni inquinanti, di cui al presente atto, la eliminazione o chiusura di tutti gli scarichi inquinanti e ciò, in particolare, alla Miteni s.p.a. di Trissino (VI), che insiste sull’area soggetta alla contaminazione e che, […] è risultata essere prevalentemente dovuta alla rilevante presenza di sostanze perfluoro-alchiliche allo scarico industriale della Ditta.

E, soprattutto, ad adottare la dichiarazione di disastro ambientale per l’intera area contaminata. Altrimenti, chiosa il documento, i sindaci si vedranno costretti ad adottare una ordinanza restrittiva che limiti il consumo dell’acqua potabile e destinata all’irrigazione.

Impedire l’accesso all’acqua potabile è una responsabilità enorme: non è certo facile come togliere un prodotto dal mercato. Questo dovrebbe dare una misura del livello di preoccupazione degli amministratori in primo luogo circa la salute dei loro cittadini, e in secondo luogo circa le ricadute economiche: e se ad esempio risultasse che i PFAS sono presenti anche nel vino prodotto con viti irrigate con acqua inquinata? Non a caso, la Coldiretti si sta muovendo per costituirsi parte civile negli eventuali processi contro gli inquinatori.

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