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VIDEO | Coronavirus, milanesi più ‘umani’ con il lockdown

La psicoterapeuta Anna Marini: “Meno contatto fisico ma cresce quello visivo, ci si scambia il buongiorno. Per resistere occorre replicarsi e ascoltare l’altro, no a un’informazione ossessiva”

Pubblicato:26-03-2020 17:30
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:02

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ROMA – “Faccio cose, vedo gente”. La frase cult tratta dal film ‘Ecce bombo’ di Nanni Moretti era fino a qualche tempo fa uno degli slogan piu’ amati dai milanesi, abitanti veloci della citta’ piu’ europea d’Italia, la Milano che corre e non si ferma mai. Per Alda Marini, psicoterapeuta e psicoanalista junghiana del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA, IAAP) di Milano, e’ proprio questo slogan una delle principali vittime del coronavirus, che, nel giro di un mese di lockdown, ha spazzato via abitudini e stili di vita consolidati, con un impatto importante sulla psiche degli individui e risvolti inaspettati.

In tanti, nella citta’ meneghina da 400mila single (dati 2018, ndr), si sono infatti trovati dall’oggi al domani soli, rinchiusi in piccoli spazi in un tempo sospeso e indeterminato. “Spesso la loro scelta di vita e’ un appartamento piccolo in centro a Milano, il piu’ vicino possibile a cio’ che crea vitalita’ e movimento: locali, cinema, teatri- spiega, intervistata dall’agenzia di stampa Dire, l’esperta in psicosomatica, dell’Associazione nazionale di Ecobiopsicologia (ANEB)- Case con piccoli ambienti dove si sta bene se una persona torna, si cambia, prende la borsa e va a lavorare o ad un evento, e ha una vita tutta proiettata all’esterno. Non sono adatte a starci a lungo, hanno un unico ambiente che continua a riproporsi e rischia di non essere sufficiente per il bisogno che ha l’anima di muoversi e di incontrare situazioni”.


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Principale difficolta’ per queste persone, come per tutte quelle che in Italia stanno passando la quarantena in solitudine, e’ “l’assenza di contatto umano, anche semplice”, fatto di “corpi che si muovono, che emanano un’energia, un calore che va al di la’ del contatto fisico’. A mancare non e’ certo l’interazione, ne’ la comunicazione, via telefono, Skype o WhatsApp. “Anzi- sottolinea Marini- mi viene da dire che ci si cerca quasi piu’ di prima”. Di mezzo, pero’, c’e’ sempre uno schermo: “La stessa parola ci dice che esiste una difesa, un filtro tra me e l’altro, una diminuzione del livello di contatto”. Attraverso una videochiamata “se noi ci guardiamo io vedo il suo volto, lei vede il mio, le mie spalle, ma non va oltre- insiste la psicoterapeuta- Non sa se la mia gamba dondola, il mio piede si appoggia sulla punta o e’ completamente a terra, io non le ho dato la mano, con questo contatto che trasmette calore, intensita’”, ne’ ci sono stati “abbracci, pieni o formali. Tutta questa parte la stiamo accantonando e allora dobbiamo usare dell’altro: il nostro immaginario”.

Immaginario che – sostenuto dall’inconscio attraverso i sogni “che i miei pazienti in questo periodo ricordano di piu’” – “permea i nostri corpi” e, in questa fase, diventa veicolo di contatto umano con l’altro, “magari raccontando un sogno ad un’amica o condividendo una quota creativa, anche nella scelta di un film. Questo potersi connettere col mondo psichico dell’individuo, con la sua anima, e’ il modo che noi abbiamo per rimanere umani e dare corpo- continua la psicoanalista- Gli diamo corpo per interposta psiche. Io ricostruisco il corpo dell’altro e la sua energia vitale attraverso il mio immaginario che percepisce il suo immaginario e cosi’ rimango in contatto. Questo ci porta a uscire dalla superficialita’”.

Ed ecco che “lo slogan milanese ‘faccio cose e vedo gente’ non tiene piu’, si e’ frantumato in mille rivoli- sostiene l’esperta- Dopo un po’ emerge qualcosa di piu’ sano, perche’ la psiche e’ troppo in sofferenza, non puo’ essere nutrita dalla superficie, ma da cio’ che ha sede nella profondita’ del nostro essere. Immancabilmente devo andare in quella dimensione se voglio sopravvivere in questo contesto”. Per Marini, “l’unico modo vero per combattere il virus e’ replicare noi stessi, e’ stare piu’ agganciati possibile ad una propria condizione d’anima, cercare e creare una situazione il piu’ possibile vitale nella quale identificarci, riscontrarci per poter percepire in noi una forza e un’energia”. Avviando progetti con gli amici o condividendo riflessioni sui libri letti: “qualunque cosa che mi faccia sentire un’attivazione dentro e mi sintonizzi con me stesso in una dimensione di autenticita’”.

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Il segreto per resistere e’, quindi, “replicarsi nel proprio habitat, contrastando simbolicamente la replicazione del virus, popolare il nostro mondo, la nostra casa, di noi, appendendo proprio in quel punto quel bel quadro che da tanto tempo volevamo appendere, preparando il pane e dandogli una forma che in quel momento ci piace. Frequentare noi stessi, portarci fuori nel piccolo habitat che sono le nostre case attraverso queste piccole azioni, aiutando i nostri cari a fare lo stesso, in modo che il nostro mondo dentro sia visibile fuori”. Questo vale soprattutto nei casi di convivenza h24 con un nucleo familiare.

Forse all’inizio c’e’ stato un “clima di festa” per lo stare a casa, poi pero’ si e’ passati ad una “routine con preoccupazioni crescenti”, che possono “riversarsi all’interno delle relazioni”. La stessa situazione, pero’, “puo’ diventare occasione per fare delle cose insieme ai figli, che suscitino emozioni, rimanendo dentro la situazione che si sta condividendo: fare la lotta dei cuscini sul lettone, andare in cortile e giocare a palla. In quel momento io mi dimentico del coronavirus, ed ho bisogno di farlo”. Impossibile da dimenticare se si vive con “l’ossessione dell’informazione continua”. Per Marini, infatti, questo e’ l’altro “virus in circolazione, assolutamente patologizzante”, che “crea un allarme psichico costante”, verso cui, “anche quando non me ne occupo, io devolvo delle energie per tenere sotto controllo un vissuto di sovraesposizione. Se l’allerta continua e’ utile nel momento in cui io sono in guerra, devo schivare il pericolo visibile e, quindi, essere vigile- osserva la psicoanalista- in una dimensione di contagio virale questa non mi serve, anzi, devolve energie ad uno scopo assolutamente inutile”.

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Una responsabilita’, in questo senso, viene anche dalla politica. No a “comunicazioni allarmistiche, colpevolizzanti, dure nelle quali si intravede il disorientamento dello stesso oratore” e si’ a “direttive chiare, decise e precise e ai suggerimenti che riguardano anche un’igiene psicologica”. I I notiziari “non vanno visti a ripetizione, come se essere informati significasse combattere il virus- e’ l’invito di Marini- Ha senso essere informati al mattino, perche’ mi da’ direttive su come muovermi nella giornata, e questo lo devo sapere per comportarmi in modo adeguato, oppure la sera per vedere qual e’ stata la tendenza della giornata”. Ma poi occorre “sospendere qualunque altra attenzione continuativa, perche’ questo sposta l’asse verso l’esterno, mi desintonizza da me e, in fondo, mi rende piu’ permeabile al virus, in un’ottica simbolica”. Meglio utilizzare energie per ristabilire una dimensione di contatto autentico con l’altro, attraverso l’ascolto e lo sguardo.

“A Milano la realta’ di poco fa era che la gente correva, ti passava a fianco con gli auricolari, gesticolava e non ti guardava nemmeno”, e, “in modo autocentrato”, mirava “a un obiettivo: raggiungere l’ufficio, la macchina, l’aperitivo- racconta l’esperta- Ora non e’ piu’ cosi’, se esco a fare la spesa, si’ evito il contatto fisico e mantengo la distanza di sicurezza, ma vedo che le persone mi cercano con lo sguardo, scambiano un commento. Mi sono accorta che dico e ricevo di piu’ buongiorno, anche verso gli sconosciuti. Prima cio’ era percepito come un’intrusione, oggi e’ probabilmente una necessita’ rassicurante”. Quindi, forse, “questo evitamento fisico- sottolinea Marini- e’ bilanciato da una ricerca di contatto umano, a distanza, che avviene attraverso la cosa piu’ bella che uno possiede ed e’ primaria: il sorriso. Il sorriso nasce precocemente nello sviluppo del bambino ed e’ il riconoscimento per il bambino di un volto noto, qualcuno di familiare che si e’ occupato di lui fino a quel momento. Lo vediamo nascere intorno ai due mesi: quando il bambino comincia a sorridere vuol dire che e’ rassicurato. Il sorriso- conclude la psicanalista- e’ la prima traccia visibile della relazione e spero che scambiarsi un sorriso sia un messaggio di speranza per non perdere la nostra dimensione di umanita’”.

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