Getting your Trinity Audio player ready...
|
ROMA – “Sono palestinese e vorrei ringraziarti, Mo. Questo show è probabilmente la prima serie americana che rappresenta gli arabi in modo non violento e pacifico. Per così tanto tempo, i media americani ci hanno ritratti come cattivi, terroristi o minacce, rafforzando stereotipi dannosi che alimentano incomprensioni e pregiudizi. Il tuo show interrompe questo ciclo mostrando la nostra umanità, il nostro umorismo e le nostre lotte quotidiane, qualcosa che è mancato per troppo tempo”: sono le parole di Habooben, un “follower” di Mohammed Mustafa Amer, più conosciuto semplicemente come Mo, 43enne cabarettista e attore palestinese-americano, più precisamente di Houston, Texas.
Sono tantissimi i messaggi di apprezzamento da tutto il mondo per l’attore-regista sul suo Ig. Un mese fa è uscita sulla piattaforma Netflix la seconda stagione di “Mo”, una commedia un po’ biografica, un po’ romantica, che per la prima volta porta sullo schermo temi di grande attualità e difficilissimi- l’emigrazione negli Stati uniti, lo scontro israelo-palestinese, ma anche l’autismo- accompagnandoli con l’ironia e il sorriso. Temi che inevitabilmente si incrociano con i desiderata della nuova amministrazione americana, con le dichiarazioni altisonanti del neo presidente Donald Trump e la sua discussa “Trump-Gaza” diventata realtà virtuale in un video postato sui social dallo stesso tycoon.
La prima stagione incentrata sulle traversie di Mo Najjar– interpretato dallo stesso Mo Amer- risale al 2022 e racconta la storia di rifugiato palestinese a Houston, in Texas, che da 20 anni aspetta di ottenere asilo per sé e la sua famiglia e di costruirsi una nuova vita. La nuova stagione uscita in Italia poche settimane fa sta riscuotendo enorme successo. Riprende da dove si era interrotta la prima, il Messico, e offre lo spaccato di chi disperatamente cerca di varcare il confine, il muro eretto nel corso dell’amministrazione di Trump 1, e arrivare negli States, l’eldorado che poi tanto eldorado non è. Il finale? Senza cadere nello spoiler, la serie ci porta anche in Palestina, o meglio Israele, in un periodo precedente alla tragedia del 7 ottobre. Ma tanto basta per mostrare- sempre con il sorriso- le difficoltà di un popolo diviso tra chi lotta per ottenere asilo in un altro Stato e chi si trova invece a casa sua, ma lotta lo stesso, per tenersela stretta.
Perché vedersela? Perché senza cadere nella politicizzazione, negli stereotipi, nella tragedia, mostra uno spaccato del mondo arabo diverso da come ci è stato propinato dal mainstream cinematografico e forse riesce anche a insegnarci qualcosa.
Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it