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Adil (attivista): “In Sudan contro il golpe resistenza di quartiere”

In Sudan la società civile è tornata in piazza a manifestare contro l'esercito, che lo scorso 25 ottobre con un colpo di stato ha destituito il governo di transizione

Pubblicato:25-11-2021 17:32
Ultimo aggiornamento:25-11-2021 18:37
Canale: Mondo
Autore:
sudan-min
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di Brando Ricci

ROMA – Oggi in piazza in Sudan e tra le comunità della diaspora in giro per il mondo non ci sarà solo “il netto rifiuto dell’accordo post-golpe tra il generale al-Burhan e il premier Hamdok” ma soprattutto una nuova generazione di giovani militanti “che sogna una rappresentanza diversa, svincolata dai partiti e totalmente in linea con la rivoluzione del 2019”. A parlare con l’agenzia Dire è Mayada Adil, attivista, ginecologa e stilista sudanese che vive a Parigi. Dalla capitale francese Adil, 27 anni, nata in Sudan e cresciuta in Arabia Saudita, medico con un master in diritti umani e scienze politiche alla Paris School of International Affairs, anima le attività delle associazione della diaspora locale “in stretto contatto con gli attivisti sudanesi, coordinando attività per il loro sostegno anche a livello economico e portando le loro istanze anche presso le autorità, qui in Francia”.

Oggi in Sudan è stata convocata una manifestazione per protestare contro l’accordo raggiunto nel fine settimana tra il generale Abdelfattah al-Burhan e il primo ministro Abdalla Hamdok. Un titolo, questo di capo di governo, che torna ad avere un senso con la firma dell’intesa, dato che il militare aveva precedentemente sciolto l’esecutivo con un colpo di Stato e arrestato il premier e altri oppositori il 25 ottobre. Da allora migliaia di sudanesi hanno protestato contro il golpe. Molti di questi non si capacitano che Hamdok sia tornato a dividere il potere con i militari. “Crediamo che l’abbiano praticamente costretto – dice l’attivista – promettendo di mettere fine al bagno di sangue organizzato da al-Burhan e dal suo vice Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti”.

Stando ai dati comunicati dal Central Committee of Sudan Doctors (Ccsd), almeno 24 persone avrebbero perso la vita nel corso delle proteste. Hamdok ha annunciato ieri prossime indagini sugli abusi delle forze di sicurezza. Al-Burhan si è anche riconfermato presidente del Consiglio sovrano di transizione, organismo con funzioni esecutive costituito da civili e militari nato all’indomani della rivolta popolare e dell’intervento dell’esercito che nel 2019 misero fine a 30 anni al potere del presidente Omar al-Bashir.

Nel corso di quella fase, circa due mesi dopo la destituzione dell’ex capo di Stato, i militari fecero fuoco sui manifestanti nella capitale Khartoum, uccidendo oltre 100 persone, sempre secondo il Ccsd. È anche per fuggire dalle responsabilità di quel crimine e di altri commessi in quel periodo, secondo Adil, che “i militari hanno voluto riprendere il potere con la forza”. Evitare di essere giudicati per quelle morti sarebbe uno dei motivi principali, ma non l’unico. “Le forze armate – denuncia l’attivista – detengono e controllano oltre il 70 per cento delle risorse dello Stato sudanese e delle istituzioni. Investono in tutti i settori, dalle armi all’agricoltura, e vogliono mantenere la loro egemonia economica sul Paese”.

Tra le organizzazione e i partiti che hanno convocato le manifestazioni di oggi ci sono la Sudanese Professionals Association (Spa), organizzazione ombrello che racchiude 17 sigle sindacali, e anche le Forces of Freedom and Change (Ffc), alleanza dei movimenti che hanno animato la rivolta del 2019, parte del governo prima del golpe del 25 ottobre. Adil evidenzia che queste organizzazioni però “stanno perdendo sempre più terreno tra la popolazione sudanese”, anche perché “le Ffc hanno accettato la condivisione del potere con i militari che ha seguito la caduta di al-Bashir”.

Sarebbe in corso un processo di avanzamento verso un nuova fase delle rappresentanza. “Sta emergendo il ruolo dei resistance committees”, dice l’attivista delle organizzazioni nate nei quartieri delle città sudanesi in risposta al golpe, tra i principali organizzatori della protesta di oggi. “Assistono la popolazione, sono in contatto con i bisogni della gente e si stanno organizzando a livello politico, facendo anche formazione in questo senso tra i nuovi membri. E poi stanno scegliendo la loro rappresentanza con un processo totalmente democratico: niente a che vedere con la spartizione tra partiti”.

IN SUDAN A MIGLIAIA IN PIAZZA CONTRO L’ESERCITO, E PER IL DARFUR

di Alessandra Fabbretti

In Sudan la società civile è tornata in piazza a manifestare contro l’esercito, che lo scorso 25 ottobre con un colpo di stato ha destituito il governo di transizione.
Stando alle fonti di stampa internazionale, diverse migliaia di persone hanno aderito a Khartoum e nei sobborghi di Ondourman e Al-Daim, mentre le dirette rilanciate sui social network testimoniano di un’ampia mobilitazione anche nelle città di Port Sudan, Kassala, Wad Madani e El Geneina.
Le iniziative di oggi sono volte a ribadire il netto rifiuto verso l’accordo stretto domenica scorsa tra l’esercito e l’ex primo ministro Abdalla Hamdok. Quest’ultimo, agli arresti dal 25 ottobre, è stato rilasciato e reintegrato nelle sue funzioni, per dirigere un governo tecnico incaricato di organizzare le elezioni entro il 2023. Una gran parte delle organizzazioni democratiche hanno bocciato l’intesa esigendo l’uscita definitiva delle Forze armate dalla scena politica del Paese.

Al motto di “la rivoluzione appartiene al popolo, esercito vattene” e “Burhan non vincerai, fermiamo il potere dei militari”, i dimostranti hanno espresso la loro opposizione verso le forze armate e il generale Abdel Fattah Al-Burhan in particolare, che ha diretto il golpe. Inoltre, i cortei hanno denunciato la morte dei “martiri”, ossia dei 42 civili che hanno perso la vita nelle manifestazioni popolari scoppiate da fine ottobre a causa degli interventi violenti delle forze sudanesi.
Stando al Central Committee of Sudan Doctors (Ccsd), tutte le vittime sarebbero decedute a causa di colpi d’arma da fuoco riportati nel 60% dei casi a testa e collo e nel 35% al petto.
Solo in due casi i proiettili hanno colpito schiena o gambe.

A Khartoum, i manifestanti hanno scandito anche lo slogan “il Darfur sanguina”, e “tutto il Paese è il Darfur” a causa delle violenze registrate negli ultimi giorni nella regione. “Scontri sanguinosi” confermati ancora dal Central Committee of Sudan Doctors, che in un comunicato delle ultime ore dà l’allarme anche sui roghi di abitazioni, e per via dei numerosi morti e feriti registrati nella regione.
L’organizzazione quindi lancia “un appello alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie locali e internazionali affinché contribuiscano a ridurre l’intensità del conflitto e a neutralizzare le forze armate e le milizie in modo da garantire che le armi da fuoco non vengano utilizzate”. Il Comitato centrale dei medici ritiene “l’autorità golpista e il suo apparato militare e di sicurezza pienamente responsabili” non solo dei morti e dei feriti, ma anche della “diffusione incontrollata e senza scrupoli delle armi in tutto il Darfur e l’armamento di gruppi contro altri”. Nel Darfur, a partire dal 17 novembre, sono ripresi gli scontri tra pastori di etnia araba nelle zone di confine col Ciad. Da allora almeno 35 persone hanno perso la vita mentre 16 villaggi sono stati distrutti, come ha riferito ai media internazionali il Commissario sudanese agli aiuti umanitari Omar Abdelkarim.

Il Darfur è stato teatro di una guerra civile nel 2003 di cui è stato ritenuto responsabile l’allora presidente Omar Al-Bashir.
A fine 2018, ampie manifestazioni popolari contro il generale Bashir hanno indotto l’esercito a deporlo e a negoziare la formazione di un governo ad interim composto da civili e militari, con a capo il premier Hamdok.

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