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‘Viola come il cielo’: un racconto per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Il racconto di Emanuela Benini, Comitato DireDonneRoma, 25 novembre 2018, dalla raccolta inedita di racconti, V.G

Pubblicato:25-11-2018 11:42
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 13:49
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Viola, come il cielo che, tra arancio e blu, non sapeva se tirare a pioggia.


Viola, come quella muleta svolazzante. Pensavo a una sedia a dondolo in una veranda di legno.

Viola, come la frutta più scura del botteghino dei succhi, alla mia sinistra.

Solo quello vedevo, perché un camion alla mia destra mi tappava il resto della strada e, davanti a me, beava un grande pick-up verde.

Eravamo in coda da lunghi minuti, per via dell’uscita della scuola. Un nugolo di bambini felici si assieparono davanti al chiosco delle centrifughe, fino a toccare la macchina. Erano tutti in attesa dei succhi multicolori, e poi fu un tripudio di sorsi e urla e monosillabi, dopo il silenzio scolastico.

Presto esaudito era il desiderio di trangugiare tutto il succo, tenendo a piene mani il bicchierone di carta, sigillato dalla plastica, infilzato dalla cannuccia. Il nettare era ermetico alla vista, benché di colore sgargiante, e all’olfatto, ancorché dolce, e al tatto, perché bagnato e all’udito, malgrado il suo gorgoglio.

Li guardai a lungo, uno dopo l’altro. Ma come farà il quinto senso, il sapore, senza l’aiuto degli altri, a scavalcare le sensazioni fugaci per approdare all’emozione piena ?

E conoscevano, quegli alunni, la forma e il colore del frutto ? sapevano la sagoma e l’eleganza della pianta e dei suoi fiori ? Le banane pendono all’ingiù o all’insù?

L’ingorgo di solito mi stuzzica, quanto i risvegli notturni, in cui la mente cavalca sentieri insoliti. Ne approfittai per ripassare in rassegna gli eventi del giorno, quando un pappagallo lanciò un grido che coprì il concerto dei bambini felici.

Spensi la radio e chiusi la finestra e non potei più fare altro che srotolare, piano, lo sguardo, davanti a me, sul cassone verde, sotto il cielo viola.

Dietro il battente posteriore, fissato ai lati con pezzi di cavi, si aggrappava una mano rugosa. Seguiva un braccio a scacchi stanchi, ansimante, e una gamba piena di pantalone marrone.

Dopo la spalla, la guancia pendeva da un neo in punta di zigomo e, sopra il naso carnoso, lo sguardo stranito di un uomo non ancora canuto, non esprimeva resilienza, ma impotenza.

Superato il boccolo della cintura, la stoffa dei pantaloni dopo pochi palmi si appiattiva col vento e, dall’orlo sfilacciato, spuntava come una canna impiantata in una zeppa infangata.

Dopo il corpo dell’uomo, un bastone nodoso risaliva fino all’altra mano che ne torturava la presa, quanto i denti lunghi come corteccia torturavano il labbro esangue.

Questo voyeurismo in un’intimità famigliare che, seppur aperta ai venti, non andava profanata, mi fece arrossire. Chiusi gli occhi, a lungo. Poi decisi di essere più lenta nello srotolare lo sguardo, un po’ come nell’avvolgere una veneziana, ma in silenzio.

Oltre vidi, da grossi involucri di plastica nera sbucare manici di arnesi e, sacche bernoccolute di tele scolorite o coloratissime, taniche imbrattate, chiuse con palle di stoffa.

Poi, venivano quattro paia di scarpe incolori e informi, coperte di mota. Quelle di destra erano immobili, quelle di sinistra, per nulla ma, lì, i pantaloni erano più lunghi, e meno attillati e logori.

Erano quattro gambe che, dai due lati, esprimevano una forza fisica capace di rara sensualità. Si erano già unite, dall’evidenza del quadro.

Lì finiva però il piatto del cassone.

Oltre il vetro della cabina si ergevano tre nuche spoglie e luccicava un cellulare, schermo tra vita e vita, che raccoglie quelle ombre di emozioni che ancora galoppano per il mondo, zoppe del desiderio.

Contro la cabina, la sagoma di destra tirata in una camicia sintetica, già celeste, pareva voler imprimere la sua forma alla latta. Non si muoveva d’un pelo, e non sembravano staccarsene né braccia né mani – ciò nonostante, là sotto, un cuore doveva pur battere.

Sulla sinistra, la camicia era più nuova, ma di un cotone cupo che, nel gesticolare, creava ombre triangolari come se avesse quattro braccia. E le spalle si giravano, si abbassavano, si raddrizzavano e, davanti a loro, la muleta sfarfallava.

Il mio sguardo risalì ancora, piano, perché temeva di incrociare altri sguardi.

A destra, sulla camicia celeste ballavano fili di capelli neri e il bel volto era fossilizzato da occhi di quarzo, gettati sopra di me. Sugli zigomi : un grosso neo e, sull’altro, un grande livido, ancora viola.

A sinistra, il sorriso aitante, soddisfatto della propria maschia fisicità, dava ritmo a mani enormi.

Tra il fondo orizzontale del camioncino e la verticalità dell’abitacolo, vi era però ben altro.

La muleta.

Le due codine nere agli angoli della testa erano instancabili. Dalla camicetta rosa, sopra il gonnellino viola, spuntavano due braccia minuscole che, senza tregua, scodellavano il repertorio di un balletto adulto, alterno ad abbracci sapientemente calcolati, all’immenso corpo del padre, e che lui placava, con la grande mano sinistra sulle spalle della figlia. Quella danza non libera, la conoscevano a memoria.

Toglietemi da davanti ciò che mi viene imposto dalla claustrofobia dell’ingorgo. Pensai.

Pensai che erano, qui, uno e una – adulti -, un e una – bambini – a soffrire … a s’offrire.

Come può lui gioire del dolore inferto ? il potere, quand’è benevolo, non è amplio ?

Come possono conviverci gli altri ? e come andrà a finire, se il viola ne è il colore ?

Succede in case, in strade, in boschi, in ogni dove, in ogni tempo, e in ogni ceto.

NO, non è amore, se è rivolto a chi condivide il tuo nome, o quasi. NON ti appartiene, l’altro.

Onorabilità ? MAI, perché è un cristallo di sabbia sul vulcano del dolore che arde.

Si potrà ridare dignità e amore ai feriti ? Si potrà punire il singolo, ma rasserenare la mascolinità ?

Poi, lo scalmanare di quelle gambette di bambina sconfinarono sull’altro lato.

Il fagotto. Sì, misi il Mozart sublime e la sicura per non schizzare fuori e incrementare i danni.

Già ! un fagotto tutto blu era accoccolato sulle ginocchia della madre, ignara della sua presenza.

E il cielo decise di separare i colori. L’azzurro rimase a destra. L’arancio si fece grigio e, poco dopo, la frutta per prima e il lato destro del pick-up si inzupparono come il mio parabrezza che, dalla parte del guidatore, era asciutto. Superai il pomo delle marce e m’installai accanto, là dove il sole brillava.

Vidi la gamba non di legno ripiegarsi piano, e il poppante e la madre raddrizzarsi in un abbraccio solenne e quindi, verso la luce, che si rifletteva sulla cortina cangiante dei fili di pioggia cui loro giravano le spalle, vidi estendersi un loro braccio, seguito dal loro sguardo.

Dopo essermi divincolata dall’ingorgo, sgorgò l’idea di una telenovela, planetaria.

Emanuela Benini, Comitato DireDonne

Roma, 25 novembre 2018,dalla raccolta inedita di racconti, V.G.

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