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Eutanasia, all’Unicusano si riflette sul ruolo dei giudici e sul significato della dignità umana

Se il giudice debba essere o meno considerato garante della dignità umana è invece la domanda che ha diviso le posizioni dei relatori. Di Camilla Folena

Pubblicato:25-09-2019 18:35
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:44
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ROMA – ‘Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?’. È questa la domanda attualissima che titola il libro del consigliere della Corte di Cassazione, Roberto Giovanni Conti. Il volume, fresco di pubblicazione, fa da filo conduttore per la discussione tenutasi oggi, nell’Aula Magna dell’Università Niccolò Cusano a Roma, poco prima della sentenza della Consulta sulla vicenda di Marco Cappato e il tema dell’articolo 580 del codice penale, in materia di istigazione e aiuto al suicidio.

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Ma cosa si intende per vita, morte, per dignità umana? La parola dignità “proviene dal latino dignius, degno”, ha spiegato Enrico Ferri, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università Niccolò Cusano.


Ma cosa significa veramente? “Siamo proprio sicuri che la dignità umana sia un concetto giuridico? È un concetto filosofico, probabilmente kantiano. Quale sarebbe la sua giuridicità? O decliniamo un combinato disposto (interpretazione congiunta di due o più concetti, ndr) tra dignità umana e un diritto tutelato dalla Costituzione o, se utilizziamo soltanto la clausola dignità umana, quale significato bisogna attribuirgli? È un qualcosa di sfuggente”, ha riflettuto, Giovanni D’Alessandro, preside della facoltà di Giurisprudenza Unicusano.

“È importante avere come baricentro il fatto che la dignità impone l’avere rispetto della persona, che si declina in una pluralità di diritti”, questa la riflessione di Roberto Giovanni Conti, autore del volume fulcro della discussione odierna, che ha poi aggiunto: “Penso che andare alla ricerca delle definizioni sia poco produttivo”.

Al livello prettamente giuridico, ha puntualizzato però Anna Pirozzoli, preside della facoltà di Scienze Politiche, “la dignità diventa non solo un elemento rafforzativo di diritti già esistenti, ma anche spinta propulsiva per nuove forme di diritti”.

Durante il dibattito sono spiccati elementi unificatori come divisivi. A unire i relatori è stata la fermezza nello statuire che “il legislatore deve trovare il coraggio”, ha sostenuto Ferri.

“Deve inevitabilmente costruire- ha aggiunto il preside D’Alessandro- una cornice all’interno della quale il giudice decida e scelga la norma da applicare”. Secondo la preside Pirozzoli “un ruolo, un’interpretazione, una posizione da parte del Parlamento sarebbe ormai opportuna”.

Questa situazione, infatti, conduce la giurisprudenza a compiere “uno sforzo crescente per sanare quelle lacune che il legislatore lascia. Cannabis, fine vita, prostituzione, matrimonio omosessuale, sono tutti temi che il legislatore stenta a disciplinare”, ha chiosato Alfonso Celotto, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Roma Tre.
Perché “lo Stato non riesce a trovare un raccordo tra i punti nodali della società”.

Se il giudice debba essere o meno considerato garante della dignità umana, oggetto iniziale dell’evento, è invece la domanda che ha diviso le posizioni dei relatori. Celotto ha sostenuto che il giudice non è garante, “spetta al legislatore esserlo. Il giudice- ha continuato- è la ‘bouche de la Loi’ (bocca della legge, ndr), così com’è scritto nello Statuto Albertino e nella nostra attuale Costituzione. Il giudice- ha ritenuto il professore- ha il ruolo di applicare la legge, le grandi scelte spettano al legislatore”.

Dall’altro lato, però, Ferri non si è trovato d’accordo e D’Alessandro ha aggiunto che “il giudice può e deve essere il garante dei problemi bioetici”.

Al centro del dibattito, dunque, la dignità umana e il ruolo del giudice nella tutela di essa. “Ma che vuol dire degno? Una vita ‘degna di dignità’, come formula, dovrebbe significare- ha riflettuto Ferri-una vita degna di essere vissuta. E cosa vale la pena di tutelare? La possibilità della persona di decidere, l’autonomia, la coscienza, la libertà della persona di dire ‘no, non mi interessa più questa sofferenza che voi chiamate vita’. Se la vita è ridotta a mero patire, a un consumarsi fino alla perdita della coscienza e dell’identità, può essere davvero considerata una vita degna?”.

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