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BOLOGNA – La richiesta di elemosina per strada come metodo di “controllo del territorio” e veicolo per la gestione di affari criminali. E’ quanto sta accadendo da qualche anno a Bologna secondo la Comunità Papa Giovanni XXIII ma anche secondo il magistrato Stefano Orsi, già pm della Direzione distrettuale antimafia poi passato alla Procura generale della Corte d’appello: per Orsi, l’ipotesi è questo controllo tramite i questuanti possa interessare da vicino anche la Questura, gli uffici giudiziari e chi vi entra ed esce.
Dell’argomento si è parlato stamattina durante un’udienza conoscitiva del Consiglio comunale. Ai lavori della commissione ha partecipato Nicola Pirani, coordinatore dei volontari dell’unità di strada della Giovanni XXIII che lavorano nel progetto “Oltre la strada”, promosso dalla Regione Emilia-Romagna per gestire gli interventi socio-sanitari sul campo della prostituzione, del grave sfruttamento e della tratta di esseri umani. Le affermazioni del magistrato Orsi, segnalate dallo stesso Pirani, risalgono invece ad un convegno online organizzato proprio da “Oltre la strada” lo scorso aprile.
Il video del convegno è tuttora visibile online: interpellato sull’idea che chi fa la questua per strada possa in realtà custodire la droga destinata allo spaccio, visto gli scarsi proventi dell’accattonaggio, Orsi (all’incirca dal minuto 59) conferma l’ipotesi: “Può essere che questi ragazzi si prestino a custodire quel tesoretto di dosi che lo spacciatore di volta in volta va a cedere”, evitando di tenere con sè grosse quantità di sostanza. Ma Orsi va oltre, segnalando che “in via Garibaldi, dove ci sono gli uffici giudiziari, ci sono due o tre o a volte anche quattro nigeriani che chiedono l’elemosina e, allo stesso modo, nel tragitto che va da via Farini verso la Questura“. “Io non voglio sembrare un complottista” perchè “non credo di esserlo”, continua Orsi, ma dopo un po’ “questi disgraziati, per quanto possano non avere un livello culturale elevatissimo, ma questo lo dobbiamo verificare perchè non lo sappiamo, conosceranno tutti i magistrati, i poliziotti e i personaggi che transitano per la Questura, il Tribunale e la Procura. Se non è una forma di controllo del territorio questa…“. Di questa conoscenza “cosa se ne fanno? Non lo so, ma intanto controllano il territorio”, continua il magistrato, ricordando che questo fattore “per qualunque organizzazione criminale è la base fondamentale. Se dobbiamo ragionare in termini militari, il criterio è quello”.
Anche se “da qui ad accertarlo diventa difficile, così come è stato difficile- continua il magistrato- accertare l’esistenza della mafia nigeriana dietro alla tratta finchè non abbiamo avuto un collaboratore che ce ne parlasse, lo stesso che ha iniziato a lavorare con la Dda di Torino e che poi abbiamo utilizzato noi, ma non ci ha parlato di accattonaggio”. Dunque, serve “un collaboratore che ci parli di queste attività di controllo del territorio attraverso il meccanismo plausibile dell’accattonaggio“, spiega Orsi: altrimenti restano “ipotesi che però rimangono tali”. Ipotesi che intanto convincono la Giovanni XXIII, che chiede di “tenere sotto controllo” il fenomeno dei questuanti nigeriani perchè “secondo noi- afferma Pirani- fanno accattonaggio, ma nel mentre fanno anche altro”: custodia della droga o controllo del territorio, per l’appunto. Del resto, durante il lockdown i questuanti nigeriani “erano scomparsi- fa notare Pirani- mentre rumeni e serbi continuavano ad essere presenti, perchè loro con quello che raccolgono ci mangiano, mentre probabilmente i nigeriani hanno altre fonti”.
Se per il magistrato Stefano Orsi è “plausibile” che la mafia nigeriana, a Bologna, usi i questuanti con finalità di controllo del territorio, intanto, di sicuro, c’è che dal 2016 in poi la presenza di nigeriani tra i questuanti è “cresciuta in modo esponenziale”, scavalcando le altre nazionalità più diffuse, ovvero rumeni e serbi. A spiegarlo è Nicola Pirani, coordinatore dei volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII impegnati nel progetto “Oltre la strada”. Fino a qualche anno fa, il 47% dei questuanti presenti in città provenivano dalla Romania e solo il 7% o 8% dall’Africa, riferisce Pirani: poi dal 2016 “le percentuali hanno iniziato progressivamente ad invertirsi” e le persone di origine africana sono arrivate “fino al 58%, praticamente tutte nigeriane, mentre i rumeni sono scesi al 20%”.
Diverso il modo di chiedere l’elemosina. Mentre rumeni e serbi tendenzialmente stanno fermi in un posto ed espongono un cartello, spiega Pirani, i nigeriani “si muovono e vanno incontro alle persone” e così facendo “hanno iniziato pian piano ad occupare le zone più remunerative della città”. Rumeni e serbi “ci hanno raccontato di un metodo pianificato dei nigeriani”, continua Pirani: se arrivano in un punto che decidono essere molto remunerativo e lì c’è già un rumeno, “vengono in quattro o cinque, si mettono lì e cominciano ad impedire a quest’uomo di fare l’elemosina. Lui piano piano va via” e in questo modo i nigeriani “si sono presi tutto il centro storico”. Dietro, per la Giovanni XXIII, c’è una pianificazione ben precisa: “È tutto organizzato, è chiaro che c’è una gestione al millimetro di tutto“, afferma Pirani, condividendo con Orsi l’ipotesi che la presenza capillare dei questuanti possa servire a controllare il territorio e supportare traffici illegali, come lo spaccio di droga.
Pirani racconta, ad esempio, di aver visto personalmente in via Indipendenza “un ragazzo di colore, ben vestito, che diceva qualcosa a tutte le persone che facevano l’elemosina e gli rispondevano guardando a terra”, cosa che tra gli africani “vuol dire riconoscere una persona più importante”. La Giovanni XXIII, racconta poi Pirani, può incrociare le informazioni raccolte occupandosi anche di altri temi, come lo sfruttamento della prostituzione o i colluqui con i richiedenti asilo inviati dalla Commissione territoriale quando emerge il rischio tratta. Una ragazza finita all’hub di via Mattei, ad esempio, ha raccontato ai volontari di essere stata agganciata lì da un ragazzo nigeriano per avviarla alla prostituzione: ragazzo “che di giorno faceva l’elemosina”, afferma Pirani. Lo stesso dicasi, continua l’operatore della Giovanni XXIII, anche per uno degli arrestati nell’ambito delle inchieste sui Maphite, che stazionava davanti ad un supermercato delle provincia bolognese: “Faceva l’elemosina lì di giorno e di notte era uno dei capi del clan”, afferma Pirani.
Ma va detto che tra i questuanti ci sono “persone che non sempre si accorgono di essere sfruttate”, sottolinea Pirani, perchè si tratta di una forma di controllo “più leggera” rispetto, ad esempio, alla prostituzione. Eppure, non mancano le vicende con risvolti drammatici.
“Nel 2019, attraverso la collaborazione con una cooperativa bolognese che fa accoglienza- racconta Pirani- siamo riusciti ad accompagnare il primo nigeriano a fare denuncia per sfruttamento dell’accattonaggio. Come tutti i richiedenti asilo, aveva un debito da pagare per il viaggio dalla Nigeria e quando è arrivato qui all’hub gli è stato detto che per ripagare si sarebbe dovuto recare nel tal posto a fare l’elemosina“. Circostanza inserita nella memoria che lo stesso ragazzo, in seguito, presentò per opporsi al respingimento della richiesta di protezione internazionale: Pirani racconta che il giudice, quindi, propose al ragazzo di fare denuncia per ottenere il permesso di soggiorno. Così fu e la Giovanni XXIII perse di vista il ragazzo, salvo poi venire a sapere (nel 2020) che era stato ritrovato morto per strada sul territorio ferrarese: “Ucciso a botte, un classico omicidio da modello mafioso“, dice Pirani. L’avvocato del ragazzo, continua l’operatore, ha poi raccontato alla Giovanni XXIII che da quella denuncia era nata un’indagine importante e che “a pochi giorni dal ritrovamento del corpo doveva esserci un’udienza”.
Pirani racconta poi la storia di un altro ragazzo “che aveva iniziato come questuante e poi era stato costretto a vendere droga in Montagnola. Ci conosceva perchè era stato mandato da noi dalla Commissione e un giorno è arrivato nel nostro ufficio. Ha messo sul tavolo il cellulare e cinque sim dicendo: ‘Nascondetemi nel posto più lontano che avete perchè mi uccidono’. Non rendeva molto nello spaccio, oppure non quanto chi lo obbligava volesse”. In una prima fase aveva il compito di trasportare droga dalla Campania all’Emilia, ma aveva mostrato troppa paura e “cercava di uscire dal giro”, riferisce Pirani: quindi, “per convincerlo lo avevano tenuto rinchiuso in una campagna vicino Napoli, senza mangiare e bere, a suon di botte”. Una volta tornato a Bologna, “è venuto nel nostro ufficio e poi ha fatto denuncia ai Carabinieri”, racconta Pirani: “Lo abbiamo nascosto e ora sta lavorando per una coop sociale in un’altra regione”. Ma in tutto ciò, sottolinea Pirani, “noi non siamo investigatori”: quindi “continuiamo ad uscire in strada sperando di trovare una persona che ci racconti bene cosa c’è dietro“.
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