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Luigi Manconi: “Sulla salute mentale bisogna tornare alla strategia ‘Villa’ su persona, comunità e aggregazione”

Il sociologo ed ex senatore alla presentazione del saggio 'In comunità, Malattia Mentale e cura': "La riforma Basaglia non è utopia, dirlo è un'offesa"

Pubblicato:25-01-2022 16:52
Ultimo aggiornamento:25-01-2022 16:57

luigi manconi
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ROMA – ‘Biografie, storie di vita, grandi sconfitte e modesti successi, atroci delitti e faticosi percorsi di emancipazione, tutto all’interno di una relazione di comunità che permette la presa in carico e la pratica della cura. E, all’inizio e alla fine, in cima a tutto, e in fondo al buio, la consapevolezza della comune fragilità e quel riconoscersi nel volto dell’altro e nel suo dolore, che è, a ben vedere, fondamento di ogni terapia e politica degne di questo nome’. Così il sociologo Luigi Manconi descrive il libro ‘In comunità, Malattia Mentale e cura’ dello psichiatra Giorgio Villa. Il saggio curato da Edizioni dell’Asino traccia la storia della comunità Montesanto, nata a Roma nel 1997, che insieme a cooperative, centri diurni e case famiglia rappresenta la diretta conseguenza del lavoro riabilitativo dei pazienti con disabilità mentale dopo la legge Basaglia, riforma che in Italia ha definitivamente cambiato il rapporto con la follia. Un prima e un dopo determinato dalla chiusura di manicomi, come il Santa Maria della Pietà con i suoi tremila pazienti e 37 padiglioni; la fine di un’epoca fatta di contenzione ed emarginazione, un passaggio epocale per la sanità pubblica reso possibile da una intera generazione di psichiatri molto vicini a Basaglia, di cui l’autore Giorgio Villa è degno rappresentante. Un racconto corale aperto a tutti; Montesanto fa respirare i pazienti, con le loro voci, le patologie, le storie, i traumi, l’emotività, i vissuti, in un momento quasi sospeso all’interno di un luogo protetto, dove poter creare legami e soprattutto dove il personale sanitario si interroga incessantemente sul percorso da tracciare; ‘insegnare e imparare’. Attraverso i casi emblematici, si affrontano alcune tematiche centrali della diagnosi e cura della malattia mentale, vengono illustrate alcune sfide del lavoro dello psichiatra e del personale sanitario, quali il trattamento di persone borderline, schizofreniche o con disturbi psicotici e poi la morte, la storia di Chiara, l’elaborazione del lutto, la formazione e la famiglia.

‘Renato Piccione accompagnò me e altri colleghi a Trieste nel 1992- racconta Villa- e proprio da lì ci rendemmo conto che ‘Si poteva fare’, stimolando risorse in ogni ambiente e in ogni situazione, era possibile ‘fare’. Non possiamo pensare che i metodi siano sempre uguali. La comunità terapeutica è utile se è possibile patteggiare il tempo di cura, infatti se è ‘sine die’ e non si integra con le altre istituzioni e risorse territoriali, non abbiamo possibilità di uscire da alcun empasse. Il privato è debitore del profitto, dobbiamo lavorare con criterio di ‘empowerment’ nel e per il servizio pubblico dove la prossimità diventa centrale e imprescindibile, dove rendere possibili le condizioni per la ricostruzione della sfera emotiva del paziente, attraverso il suo contesto familiare, i centri diurni e le cooperative. La comunità funziona se è sorretta da contratti terapeutici a tempo, nella ‘semiresidenzialità’, dove i pazienti possono recuperare il diritto dell’essere persone, il rispetto e la fiducia. Solo il pubblico garantisce la cura’. Comunità terapeutica, che in Europa e in America ha seguito ‘negli ultimi 30 anni un decorso quantitativo e qualitativo, dagli anni 80 fino al 17 ottobre 2013, anno in cui il ministero della Sanità è riuscito ad indicare le linee guida relative alle strutture intermedie in psichiatria già indicate nella legge 180. A partire da questa data è stato stabilito il PTI che ha individuato come principio cardine ‘la territorialità al fine di migliorare i trattamenti e ridurre le disomogeneità’. ‘I dati di questi vent’anni di lavoro sono impressionanti: 160 utenti seguiti con verifiche contrattuali mensili, 45 laboratori attivati che si sono succeduti nel tempo, 280 fra obiettori di coscienza, volontari di varie associazioni e tirocinanti, 18 appartamenti attivati a partire dalla fase di semi residenzialità e, seguiti, successivamente dagli operatori dell’assistenza Domiciliare Programmata gestita dal locale Centro di salute mentale’, scrive Villa.

La 180 è ancora oggi un immenso patrimonio etico da salvaguardare? A 43 anni dalla morte di Franco Basaglia, e dopo 30 anni dalla riforma, ‘In comunità’ racconta un pezzo importante dell’impianto ideologico e normativo della legge, nella direzione di non riprodurre ‘più manicomialità’ e di rafforzare i servizi di prossimità con al centro la persona, la sua storia, la famiglia nel contesto e nel territorio.


‘Una classe politica ebbe la forza di approvare una misura decisiva per la collettività, relatore di quel provvedimento fu un democristiano: Aldo Moro. Nella seconda metà degli anni ’70 quella politica era così interessata alla cosa pubblica da approvare una riforma radicale, sovversiva rispetto al senso comune’, ricorda il sociologo, ex senatore Luigi Manconi oggi presidente dell’associazione ‘A Buon Diritto’, realtà che lavora da anni per promuovere il riconoscimento di diritti umani, sociali e civili. Ma cosa accade quando viene meno la capacità di riconoscersi nel dolore degli altri e la politica non riesce a guardare i fenomeni sociali nella sua complessità, affondando le mani nella ruvidezza della condizione esistenziale delle persone? Ebbene ‘nel tempo della pandemia- spiega Manconi- è come se tutto subisse un blocco, un intorpidimento; dove qualunque analisi che va oltre il quotidiano debba essere limitata, non c’è spazio di immaginare qualcosa di paragonabile a quel 1978 per il prossimo futuro. Allo stesso tempo ci appaiono limitate una serie di prerogative, diritti e libertà. Non c’è lo spazio per immaginare qualcosa di simile alla riforma Basaglia. Partendo da questo dato storico, non bisogna mai dimenticare quale sia il ruolo nefasto della politica nel determinare le sofferenze individuali, collettive e quelle dei più fragili, i fragili di cui parla Giorgio Villa nel suo libro. Non so se è alla nostra portata il rinnovamento- dice Manconi- pertanto si torna al punto di partenza, ovvero alle responsabilità di ognuno di noi. Ecco perché il libro di Villa è importante. Perchè ci ricorda tre cose: la persona, la prossimità e la comunità. Abbiamo operato per andare oltre la diagnosi. Il rapporto con la popolazione detenuta ad esempio, puo’ avere un senso se coloro che operano in questo settore si dicono capaci di andare oltre.

‘All’interno delle carceri non esiste la persona con il nome e cognome ma l’identificazione della persona con il reato. Quella persona è il suo crimine. Un altro processo perverso, è quello del paziente con la sua patologia, in questo meccanismo ciò che ci sfugge è la persona, con il suo dolore e la sua storia. Non vedere il soggetto che è dietro o a lato di questa condizione. Quindi l’importanza di questo libro sta in questa idea potente, sotto il profilo letterario, guardare dentro la sofferenza per capire l’identità del paziente. Il paziente all’interno della struttura sanitaria vive in una condizione di totale minorità. Condizione di subalternità data per scontata e irreversibile’.

Ad esempio, ‘nei 128 istituti penitenziari italiani, l”infantilizzazione’ diventa scopo della reclusione. A dominare a tutti i rapporti interni è la ‘domandina’, che il detenuto indirizza a tutte le autorità e dove i ruoli sono definiti con linguaggio diminutivo e vezzeggiativo ‘scopino, concellino’ , come a sottolineare una condizione di minorità della persona reclusa, della sua sfera emotiva e sessuale. Nella relazione tra paziente psichico e autorità è la stessa cosa’. Per questo Manconi sottolinea che ‘bisogna tornare alla strategia di Giorgio Villa, fatta di persona, comunità e aggregazione, dove appunto vi sia un’attività terapeutica estesa alla società esterna. Tutte queste vicende segnano un’immagine degli effetti positivi della legge Basaglia, è diventato invece senso comune dire che la riforma è stata un fallimento, una fantastica elaborazione teorica, una santa utopia ma totalmente inadeguata alla realtà. Questo oltre a rappresentare una grave menzogna, credo che sia un’oltraggiosa offesa nei confronti di tutto quel lavoro enorme fatto dal 1978 ad oggi; non ci sono state solo le chiusure dei manicomi, con famiglie sole ad affrontare il loro dolore, questo è un falso tanto grave dal punto di vista storico, quanto dal punto di vista ideologico. Il libro di Giorgio Villa ci dice invece che non siamo in presenza di una riforma concreta e tangibile- conclude- solo la debolezza del nostro sistema sanitario ha determinato che non ottenesse quei sacrosanti obiettivi’. 

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