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Dal caso Ghira al delitto dell’Olgiata. La ‘prova regina’ è sempre nel dna – Videointervista alla genetista Marina Baldi

ROMA - La chiamano la ‘prova regina’, perché spesso riesce a sciogliere delitti rimasti irrisolti per anni. Dal

Pubblicato:25-01-2016 13:34
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 21:50

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ROMA – La chiamano la ‘prova regina’, perché spesso riesce a sciogliere delitti rimasti irrisolti per anni. Dal caso Ghira al delitto dell’Olgiata, passando per gli omicidi di Serena Mollicone e Yara Gambirasio, il test del Dna è diventato negli anni uno strumento sempre più attendibile, quasi infallibile secondo gli esperti, in grado di portare alla luce e svelare l’identità degli assassini. Ma davvero la scienza non può sbagliare? Per saperne di più l’Agenzia Dire ha intervistato Marina Baldi, biologa e genetista forense, da anni impegnata in ambito legale per la risoluzione di alcuni tra i più importanti casi italiani di cronaca nera.

a1Si è riaperto in questi giorni il caso del Circeo e pochi giorni fa è stata riesumata la presunta salma di Andrea Ghira, l’unico latitante dei tre che hanno partecipato al massacro. Lei si trovava nel cimitero di Melilla, enclave spagnola, come consulente della famiglia Lopez: ci può raccontare come è andata?

“È stato un viaggio molto emozionante. La nostra generazione è stata molto colpita da questo delitto, ed è come un grosso macigno che abbiamo sul cuore. Si tratta di un caso irrisolto, che in parte ci ha fatto crescere con la disillusione nei rapporti di affetto tra i ragazzi. Mi colpì molto già allora, da ragazza, e adesso che me ne sto occupando devo dire che mi fa effetto. Quello che mi fa piacere, soprattutto, è il poter decidere, insieme ai consulenti del pubblico ministero, di mettere un punto a questa vicenda: quella salma potrebbe essere di Andrea Ghira, e allora la questione si chiude qui, oppure si aprirà un nuovo fronte. Siamo andati a Melilla per riprendere i resti di questa persona, che era stata già riesumata, per fare gli accertamenti tecnici medico legali. Io sono consulente della famiglia Lopez e con me c’erano i due consulenti del pubblico ministero Nicola Maiorano, i professori Giuseppe Novelli e Giovanni Arcudi dell’Università Tor Vergata di Roma”.


Sono stati prelevati alcuni campioni, tra cui denti e frammenti di femore, per una nuova analisi del Dna che stabilirà se si tratta davvero del corpo di Ghira. In cosa consisteranno esattamente questi accertamenti e fra quanto tempo si potranno avere dei risultati?

“Gli accertamenti consisteranno nell’estrarre da questi campioni, che sono stati portati a Roma, molecole di Dna che si trovano all’interno dell’osso spugnoso. Da tali cellule si riuscirà quindi ad ottenere un profilo del Dna completo, speriamo, della persona a cui appartiene quella salma e verrà poi confrontato con il Dna dei familiari di Andrea Ghira. Questo ci consentirà, con una sorta di test simile ad un accertamento di paternità o di maternità, di stabilire se i resti appartengono effettivamente a Ghira. I tempi sono un po’ lunghi, perché l’estrazione di Dna da osso è un’operazione complessa e abbastanza difficile: credo che riusciremo ad avere un risultato entro uno o due mesi. Le analisi inizieranno questa settimana e sono in ottime mani, quindi non ho dubbi sul fatto che si otterrà un risultato dirimente”.

Nel 2005 un primo esame del Dna certificò che quella salma apparteneva a Ghira. Perché ora sono state richieste nuove analisi? 

 “Abbiamo richiesto di riaprire il caso per questa ragione: nel 2005 le tecniche non erano sofisticate come oggi, per cui si riuscì ad ottenere solo il Dna mitocondriale, che era quello che si utilizzava quando c’erano i resti ossei. Questo tipo di Dna non consente però un confronto preciso con la persona, ma solo di stabilire se quelle ossa sono imparentate per via femminile, in questo caso con la famiglia Angelini Rota, che è il cognome della mamma di Andrea Ghira. La conclusione che ci fu quindi nella perizia del 2005, che attribuiva con certezza la salma a Ghira, formalmente era errata, nel senso che gli esperti avrebbero dovuto sottolineare il fatto che quel corpo apparteneva a quella famiglia soltanto per via femminile. È stata dunque questa conclusione non precisa a permetterci di poter richiedere di nuovo l’apertura della tomba, cosa che la Procura ci ha consentito, perché in effetti il Dna mitocondriale non aiuta alla precisione”.

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La famiglia Lopez pensa che quello non sia il corpo di Andrea Ghira: è così?

 “Sì, la famiglia Lopez, così come quella dei Colasanti, è convinta che quello non sia il corpo di Ghira. Loro, ovviamente, vivono in maniera molto emotiva questa vicenda e in questi anni hanno studiato accuratamente tutti i dettagli e preso in considerazione le segnalazioni che gli sono state fatte sugli avvistamenti in città di questa persona, sui suoi spostamenti e sulle sue telefonate. Ma se quella sia o non sia la salma di Ghira, lo sapremo fra poco”.

Gli strumenti a disposizione degli esperti, oggi, sono più avanzati da un punto di vista tecnologico. Ma cos’è cambiato esattamente, per esempio nell’analisi del Dna? Si riesce ad arrivare alla verità con maggiore certezza?

 “Più che con maggiore certezza, direi che oggi si arriva alla verità più facilmente. L’osso, soprattutto quando è molto vecchio, ha difficoltà ad essere trattato in laboratorio perché è complicato estrarre cellule che contengano Dna nucleare da una trabecola. Dieci anni fa questo tipo di operazione era ancora più complessa e infatti, nel caso di Ghira, la persona che se ne occupò (la professoressa Carla Vecchiotti) non riuscì ad ottenere un Dna nucleare leggibile: era molto degradato e ridotto in pezzi molto piccoli, cosa che succede quando si tratta di ossa o salme parecchio deteriorate. Era stato questo, insomma, il limite oggettivo di quelle analisi. Oggi abbiamo non tanto strumentazioni diverse, quanto dei kit in grado di amplificare regioni più piccole di campioni, consentendoci così di ottenere più facilmente un risultato comparabile. Quanto a Ghira, dunque, siamo molto ottimisti nel fatto di ottenere un risultato”.

Risultati più precisi, quindi, anche in tempi più brevi…

 “Sì, certo, anche in tempi più brevi: si è infatti accelerata, migliorando, anche tutta una serie di passaggi relativa alla metodica. Sicuramente, oggi, va tutto un po’ meglio”.

La prima cosa che si deve valutare, ovviamente,  è lo stato di conservazione di un corpo. Quando’è, allora, che subentrano le analisi del Dna e quanti diversi tipi di analisi esistono?

“Lo stato di conservazione di un corpo o di un reperto è basilare ed è da lì che si deve partire, complice l’esperienza, per decidere come agire e quali tecniche usare. In ogni caso, ormai, ci sono processi standardizzati e linee guida internazionali che non permettono più di tanto di scegliere in che modo procedere. La stessa interpretazione dei risultati deve essere fatta secondo criteri ben precisi, accettati dalla comunità scientifica internazionale. Oltre ad essere garantisti, insomma, bisogna attenersi alle regole e fare analisi che possano essere ripetute in ogni momento e dare lo stesso risultato”.

a2Parliamo di un altro delitto, di recente tornato sulle pagine dei giornali: quello di Serena Mollicone, la 18enne di Arce brutalmente uccisa nel 2001 e ritrovata morta in un bosco. Il caso non sarà archiviato, come deciso dal gip, e sarà effettuato il prelievo del Dna sui circa 6mila abitanti del paese in provincia di Frosinone. Come si procede in questi casi? Che tempi si prevedono secondo lei?

“Intanto voglio dire che sono molto contenta per questa bella vittoria raggiunta da Guglielmo Mollicone, il papà di Serena, che ho conosciuto poco tempo fa ed è una persona straordinaria. Quanto alle analisi, in quel delitto sono stati fatti rilievi che hanno consentito di estrapolare il Dna dallo scotch che aveva avvolto la salma della ragazza. Questo Dna è stato comparato con le persone all’epoca coinvolte nel caso, ma non ha dato nessun match. Ora il generale Garofano, consulente della famiglia Mollicone, ha richiesto e ottenuto che venga estesa l’analisi del Dna a tutte le persone intorno alla vicenda e addirittura a tutta la popolazione del posto. Ciò significa che si dovrà fare un grosso lavoro, un po’ come accaduto per il caso Gambirasio: bisognerà fare un punto di raccolta e le persone, su base volontaria, si dovranno presentare per sottoporsi a un tampone salivare. Con un cotton fioc verrà quindi prelevato un campioncino di saliva, dal quale con facilità verrà estratto il Dna che darà un profilo. Tali profili verranno inseriti in un database e poi confrontati con il profilo del Dna che si ha a disposizione, in questo caso con quello ottenuto dallo scotch che era sul cadavere. Se si sarà fortunati, a quel punto, si riuscirà ad avere un’informazione”.

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In Italia, attualmente, manca una banca dati del Dna. Sarebbe utile?

“La banca dati, in realtà, sta per partire: qualche anno fa l’Italia (nel 2009, ndr) ha aderito al trattato di Prüm, che ne ordinava l’istituzione nei paesi europei, ma noi siamo rimasti un po’ il fanalino di coda perché abbiamo avuto problemi col Garante della privacy. Tali problemi, però, nel corso degli anni sono stati risolti e oggi la polizia penitenziaria è stata incaricata di iniziare questo servizio: sono stati fatti concorsi e assunte persone, quindi io credo che l’apertura della banca dati sia imminente. E questo sarà molto importante, perché nei Paesi dove esiste i reati si sono risolti per il 300%: la capacità di delinquere, infatti, viene reiterata nelle persone e in questo modo è più facile arrivare alla risoluzione di un caso”.

a4Sempre sulla base di analisi del Dna è stata arrestato Massimo Bossetti, il muratore imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate di Sopra (Bergamo) uccisa nel 2010. Quella del Dna, intanto, è chiamata ‘la prova regina’… Ma la scienza davvero non può sbagliare?

 “Questa è una domanda da mille punti… Se un test è fatto in maniera corretta, difficilmente può sbagliare, molto difficilmente. E oggi siamo arrivati ad un livello di approfondimento così accurato che, ripeto, è difficile che si possa fare un errore. Certamente bisogna seguire quei protocolli di cui parlavo prima e non sempre è così facile, perché spesso le tracce sono degradate, il Dna è a bassa concentrazione e ci possono essere contaminazioni e alterazioni del reperto: insomma, ci possono essere una serie di problematiche a cui si va incontro quotidianamente. Ricordiamo sempre, però, che il Dna va inserito in un ambito investigativo, così anche ai miei studenti io dico sempre che non dobbiamo mai considerare un dato tecnico come fosse il ‘deus ex machina’ della situazione. Esiste un’investigazione e l’analisi tecnica, che sia il Dna, la balistica o qualsiasi altra branca della criminalistica, deve convergere ed essere inserita in questo insieme di informazioni, che devono tutte collimare. Altrimenti, rischiamo di dare troppa importanza ad un qualcosa che potrebbe non essere l’unica spiegazione di un evento”.

In futuro questo tipo di esami potranno migliorare ancora, diventando sempre più attendibili?

 “Certamente. Penso alla ‘Next generation sequencing’, una tecnica di biologia molecolare recentissima che sta dando risultati meravigliosi in campo medico. Si tratta di sequenze di singoli nucleotidi, quindi di pezzettini molto più piccoli, e come in genetica medica ci consentono di avere informazioni migliaia di volte più approfondite, sicuramente anche in ambito forense l’applicazione avrà una esplosione. Già adesso alcuni di questi pannelli Ngs ci consentono di stabilire certe caratteristiche fenotipiche della persona che ha rilasciato la traccia: colore degli occhi, dei capelli, più o meno l’età e persino l’etnia. Negli anni, quindi, credo che si che arriverà ad avere una specie di identikit biologico e sicuramente anche l’identificazione ne guadagnerà. Siamo assistendo ad un migliorativo della genetica enorme, diciamo quindi che ‘siamo sul pezzo’”.

a3C’è un caso, tra tutti quelli che ha seguito, che l’ha colpita di più?

“Quello che più mi ha colpita a livello personale è stato il caso dell’Olgiata, perché è stato uno dei primi importanti a cui ho lavorato, ma soprattutto perché lo avevo seguito anche come persona qualsiasi. Avevo letto i giornali e visto in tv la storia di questa contessa, che abitava in un bellissimo comprensorio alla periferia di Roma, mentre tutti c’eravamo sempre posti il dubbio di chi fosse l’assassino e fatti delle convinzioni. Quando ho avuto modo di occuparmi di questo caso, allora, e di avere la grande fortuna di diventare la consulente della famiglia, per me è stata davvero una grande emozione. La sera in cui mi comunicarono che avevano fatto il match, che il Dna dell’assassino era stato trovato ed era del domestico filippino, ricordo che provai una soddisfazione enorme da un punto di vista personale, oltre che grossa gratitudine per il lavoro svolto dai Ris. Ma non solo: ero felice per la famiglia della contessa, che era stata veramente massacrata per venti anni”.

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