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‘Teraanga’, ‘jom’ e altre parole da riscoprire, intervista a Felwine Sarr

Parla Felwine Sarr, uno dei più attivi intellettuali contemporanei africani

Pubblicato:24-09-2018 13:45
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 13:35
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ROMA – ‘Jom‘, (dignità), ‘kersa‘ (scrupolo, pudore), ‘ngor‘ (senso dell’onore). Sono queste alcune delle parole chiave che, secondo l’economista e sociologo senegalese Felwine Sarr, intervistato dall’agenzia Dire a Napoli lo scorso fine settimana, dovrebbero essere rivalutate per “rendere vivo di nuovo l’umanesimo profondo” delle culture africane. “‘Sono valori societali, concetti intorno ai quali si fondano le comunità: ‘teraanga, ad esempio, vuol dire ospitalità, ma evoca anche il concetto di reciprocità, per cui se ho un buon comportamento o faccio un dono a una persona, quest’ultima risponde con un comportamento o un dono ancora migliori o maggiori, è un rapporto di beneficio reciproco- spiega Sarr alla Dire-. Il mio è un esempio per indicare che gli africani hanno un patrimonio di ingegneria sociale da trasmettere a un mondo in cui prevalgono sempre di più solitudine e isolamento. Bisogna ritrovare e recuperare la capacità di fare comunità, senza credere che che questo vada a discapito del valore dell’individuo”.  Felwine Sarr, classe 1972, è uno dei più attivi intellettuali contemporanei africani. Dal 2017 dirige con Achille Mbembe gli ‘Ateliers de la pensée’ di Dakar e Saint-Louis (Senegal). Recentemente è entrato in una commissione di esperti nominati dal presidente francese Emmanuel Macron per definire le modalità per la restituzione di alcune opere del patrimonio artistico africano trafugate durante il colonialismo. L’intervista si è svolta nella saletta interna della libreria Tamu, nel cuore del centro storico di Napoli, che ha aperto le sue porte al pubblico per la prima volta venerdì scorso con la presentazione del libro “Afrotopia” (Edizioni dell’Asino, 2018), in cui l’intellettuale senegalese prova a “creare un’utopia attiva che parta dal continente africano”. 

AFRICA. L’ECONOMISTA: A CASA NOSTRA VOGLIAMO RISPETTO, NON AIUTI

“È ora di smettere di guardare l’Africa come un continente miserabile, che bisogna aiutare”, dice Sarr a proposito dell’idea secondo cui bisognerebbe “aiutare” gli africani in patria per fermare le migrazioni verso nord. “Questo è quello che chiamo ‘complesso del buon samaritano’, quello della cosiddetta missione civilizzatrice: nessuno è mai andato in Africa a civilizzare le persone, gli africani hanno bisogno di rispetto, piú che di aiuti e di pietà“.  “Ho insegnato economia dello sviluppo agli studenti senegalesi per cinque o sei anni, e mi sono reso conto che avevano un’immagine degradata della loro situazione e del loro posto nel mondo. Si percepivano come studenti di un continente sottosviluppato, non abbastanza inserito nella modernità- racconta Sarr- e che si trova sempre in fondo alle classifiche economiche… Mi è sembrato necessario scrivere questo libro per dire ai giovani che il futuro è aperto, e che tocca a loro inventarne le metafore culturali, politiche, sociali, economiche”.

AFRICA. L’ECONOMISTA: ‘SVILUPPO’ E ALTRE PAROLE CHE OPPRIMONO

“Sviluppo, obiettivi del millennio, emergenza” sono solo alcune delle parole che, per l’economista e scrittore senegalese Sarr, “hanno avuto sull’Africa un impatto terribile”.  Sono parole, prosegue lo scrittore, “che iscrivono l’Africa in una posizione subalterna, non si guarda più all’Africa com’è, ma a come dovrebbe essere, e si resta perennemente incastrati in un’ottica comparativa, cioè si osservano le performance economiche degli altri Paesi e vi si paragona l’Africa, che viene così inserita in questa logica che mette l’accento sull’avere, piuttosto che sull’essere, sulla quantità e non sulla qualità, e per la quale ci si dimentica che l’economia è un mezzo, non un fine”. Anche i confini, in particolare quelli che gli Stati africani hanno ereditato dal colonialismo, sono un’altra delle categorie che il libro di Sarr mette in discussione: “Prima del 1914, in Europa Occidentale non esistevano le frontiere, nel senso che le persone non avevano i passaporti, si spostavano come volevano. E il 1914 non è così lontano– afferma- ma serve una migliore distribuzione delle risorse, è normale che al momento ci siano luoghi più attrattivi di altri dal punto di vista economico, e che la maggior parte delle persone voglia andare lì. Viviamo già in una realtà transnazionale: il clima, la biodiversità, ma anche le grandi potenze multinazionali, le merci, i flussi finanziari non rispettano le frontiere. Bisogna ripensare la transnazionalità considerandoci come una comunità umana, con dei diritti di base che siano validi ovunque”. 


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