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Donne e maternità, le blogger: “Essere mamme è pesante, parlarne si può e si deve”

Francesca Fiore e Sarah Malnerich del blog 'Mammadimerda raccontano alla Dire raccontano la call lanciata per scoperchiare il grande tema della solitudine e delle difficoltà della maternità

Pubblicato:24-06-2022 11:41
Ultimo aggiornamento:24-06-2022 18:48

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 ROMA – “Sono una buona madre?”, “Amo abbastanza mio figlio?”, “Se non tutto mi viene naturale, forse non sono tagliata per la maternità?”. Sono domande che molte donne, magari tutte almeno una volta nella vita, si pongono. Parlarne però non è facile, perché c’è uno stigma da abbattere, c’è il pudore di ammettere la difficoltà prima di tutto con sé stesse, ci sono i demoni interiori contro cui combattere, c’è uno stereotipo radicato nella cultura a cui si fatica non aderire. Eppure parlarne si può e si deve. Lo sanno bene Francesca Fiore e Sarah Malnerich, le menti dietro il blog e il profilo Instagram ‘Mammadimerda’ che, recentemente, hanno lanciato una call tra le loro followers per scoperchiare il grande tema della solitudine e delle difficoltà della maternità, per aprire uno spazio di riflessione sulla necessità di riconoscere i segnali del disagio, di sapersi fermare e chiedere aiuto.

“Lanciando questa call- spiega Francesca Fiore alla Dire- su un tema anche molto intimo, abbiamo scoperto che le donne non vedono l’ora di parlarne, di condividere queste esperienze. In 24 ore ci sono arrivate centinaia di messaggi di donne, a testimonianza del fatto che quei sentimenti di ambivalenza, che proviamo per i nostri figli e che ci affaticano tantissimo, e quei momenti di buio capitano davvero a tutte. Così, se sei una persona strutturata, aiutata e ascoltata ti fermi, altre volte potrebbe succedere di compiere gesti anche non gravi ma che si sarebbero voluti e potuti evitare. Abbiamo pensato che fosse necessaria una riflessione collettiva di quali possano essere le cause sociali che portano le donne a sentirsi così abbandonate e sole e di come si possano prevenire queste situazioni”. Perché, inutile negarlo, “la maternità è pesante, è faticosa e c’è anche una parte di lutto per la donna che eri prima, libera, mentre dopo la nascita di un figlio la tua vita è in funzione di un altro essere umano, estremamente volubile, spesso capriccioso. Per questo abbiamo deciso di vedere cosa c’è sotto al tappeto e abbiamo trovato questa sensazione di solitudine e inadeguatezza, che abbiamo tutte e parlarne fa bene, perché bisogna smettere di dire che è sbagliato sentirsi così. Ci sono aspetti bellissimi dell’essere madre, ma bisogna dire che ci sono anche momenti bui”.

“La salute mentale, delle donne ma non solo, è un tema che ci sta molto a cuore- spiega Sarah MalnerichNelle biografie di presentazione che aprono il nostro libro, io parlo dell’ultima volta in cui sono tornata in terapia, a 10 mesi dalla nascita di mia figlia, quando per la prima volta ho avuto un attacco di panico. Ho capito che era il caso di riprendere quel percorso perché non avevo mai vissuto un evento del genere e sono stata fortunata ad averlo capito, perché ero già sensibilizzata sul tema del supporto mentale. Questo mi ha aiutata anche rispetto al dover associare determinate emozioni alla maternità, che è un doppio carpiato all’indietro perché si lega al giudizio che scaturisce dall’ammettere di provare quei sentimenti che non aderiscono allo stereotipo che è stato costruito per le madri. Non aderire a quello stereotipo ti fa quindi sentire ancora più inadeguata, accrescendo la difficoltà di ammetterlo a te stessa e agli altri e poi a chiedere aiuto. Quando aspetti un bambino- prosegue- ti dicono che tutto ti verrà naturale, che non sentirai la fatica, che da secoli le donne sanno come fare e invece, magari, a te non viene naturale. Da qui ovviamente parte tutta una serie di altri pensieri scompensati, per cui ti chiedi se questo figlio lo volevi davvero, se lo ami abbastanza, se sei una buona madre, se ne sia valsa la pena. Ma la verità è che la fatica è fatica, non ce n’è una bella e una brutta, è fisiologica e capita a tutte”.


Le attese rispetto alla performance della maternità sono solo uno degli aspetti con cui ogni donna si misura quotidianamente. Ma “non farcela in un ambito, un solo ambito della propria vita, ti definisce nella tua interezza- denuncia Sarah Malnerich- Da secoli ci viene detto che le donne ce la fanno sempre, che hanno risorse di energia infinite. E invece no, perché le energie a un certo possono esaurirsi e vivere in costante riserva ti sfibra. Su questo noi donne per prime andiamo un po’ rieducate. Il problema è la matrice patriarcale di questo sistema che prevede quel ruolo per le donne”.

Un ruolo per il quale “l’asticella delle performance è troppo alta- sottolinea Francesca Fiore- Dal momento in cui ci siamo inserite nel mondo del lavoro ci viene chiesto di lavorare come se non avessimo figli e crescere i figli come se non avessimo un lavoro. Ci si aspetta che teniamo insieme tutto, ma non è possibile. Quindi l’asticella va abbassata, perché non si può continuare ad aderire a quel modello”.

Dall’esperienza del blog è nato un libro, ‘Non farcela come stile di vita. Una guida per diversamente performanti’: un manuale per aiutare tutte le donne che sentono di non farcela ad accogliere questa consapevolezza e ricostruire la propria vita in nome dell’indulgenza. Perché forse essere imperfette per come si è rende più felici che aderire a un modello che non ci appartiene.

“È molto bello e importante che ci siano e vengano raccontati tanti esempi di donne che ce l’hanno fatta- osserva Sarah- ma ricordiamoci che la maggior parte delle donne sono persone normali, che non hanno realizzato imprese epocali ma meritano di essere rappresentate, di vedere rivendicati e riconosciuti i loro diritti, a partire da quello di non farcela e di volercela fare a modo proprio. Non c’è una gara, un modello che debba stare sopra gli altri. Altrimenti ci sarà sempre una parte di donne che si sentirà inadeguata, piena di sensi di colpa. Bisogna normalizzare i mille modi di essere donne e madri e anche il fatto di sentirsi in difficoltà”.

Se è vero che il ruolo delle donne è stato costruito dentro la cultura patriarcale, un altro obiettivo delle autrici è che “il libro venga letto da molti uomini per avvicinarsi a certi temi, come il lavoro di cura, il carico mentale, l’autodeterminazione”, ammette Francesca. “E se il prezzo per autodeterminarci è ammettere, rispetto a un ruolo al quale non vogliamo e non possiamo aderire, di essere delle ‘mamme di merda’, va bene, lo diciamo se questo ci permette di non arrivare al limite e sbroccare”, conclude Sarah.

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