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Riparte la corsa al ‘game’. E Bologna va sulla rotta dei migranti

Viaggio in Bosnia con i volontari per la prima consegna di aiuti

Pubblicato:24-05-2021 16:47
Ultimo aggiornamento:24-05-2021 17:29

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DOBOJ ISTOCK (BOSNIA ERZEGOVINA) – I boschi innevati e gelidi -scenari delle immagini della Rotta balcanica che han fatto il giro del mondo- oggi hanno lasciato il posto a verdissime colline e “con il bel tempo ora tutti provano il ‘Game’per lasciare la Bosnia, entrare in Croazia e puntare Francia, Germania, Italia (in tanti sognano un approdo e un lavoro a Milano). Ma la realtà, lungo il confine bosniaco, continua ad essere anche e soprattutto quella dei pushback, i respingimenti, spesso violenti, dei migranti. Quasi routine: “Ieri sera, sono tornati indietro in due, picchiati“: a loro Emmaus Bosnia (organizzazione di solidarietà attiva con molti servizi per i migranti, ma anche anziani e persone in situazione di disagio) ha dato i biglietti dell’autobus per tornare a Sarajevo ed essere curati. “Senza quel piccolo aiuto dove sarebbero andati a finire?”, domanda retoricamente Lejla Smajic, da 10 anni con Emmaus e oggi responsabile dello sviluppo dei progetti, incontrando i giovani volontari della piattaforma di ‘Bologna sulla rotta’ partiti venerdì scorso (spedizione a cui ha preso parte la ‘Dire’ per documentarla e raccontare la situazione della Rotta balcanica) per portare i circa mille chili di aiuti umanitari raccolti prima di marzo, ma che solo ora si è potuto spedire: due camion carichi anche con quanto raccolto da ‘La Villetta’ (ma un mezzo è giunto a destinazione solo ieri dopo essere stato rimbalzato dalle frontiere tra Bosnia e Croazia). Aiuti ‘mirati’ quelli imbarcati a Bologna, e scaricati dalle parti di Doboj Istock, 70 chilometri della frontiera di Slavonski Brod: cibo per fornire pasti ai migranti, ma anche abbigliamento ‘giusto’ per chi deve aspettare, nei boschi o nei cosiddetti campi selvaggi, il momento propizio per tentare di superare la frontiera, e dunque scarpe, zaini, termos, torce, prodotti per l’igiene.

“Servono sacchi a pelo leggeri, non pesanti… Scarpe da trekking, non scarponi. Con il bel tempo ora tutti provano il game“, spiega Lejla. Tutti, dunque anche i ragazzi minorenni, 15-18 anni, come quelli che vengono accolti vicino a Doboj Istock nel grande centro allestito per loro da Emmaus: da ottobre a oggi 130 quelli arrivati; il centro ha 50 posti, ma oggi sono in nove. Molti ci provano. “Il mese prossimo tento il ‘Game'”, dice Alì, arrivato dall’Afghanistan: vorrebbe arrivare in Belgio o in Svizzera. Alle spalle ha già un respingimento. È in un centro come questo che arrivano i pasti cucinati anche con gli aiuti umanitari raccolti da ‘Bologna sulla rotta’: preparati in cucine di un’altra struttura e consegnati al centro per evitare i casi di contagio da Covid. In Bosnia comunque di mascherine in giro se ne vedono poche, sono ormai obbligatorie solo nei locali al chiuso.

“Quando non possono tentare il ‘Game’, i ragazzi in questo centro aumentano- racconta la volontaria che accoglie la delegazione bolognese- c’è chi resta un giorno, chi sei mesi”. Ma qui almeno non si è in un bosco tra capanni di fortuna, non si dorme tra i ruderi di case distrutte dalla guerra… Al centro per minori di Emmaus, bello e moderno, si possono imparare le lingue, svolgere attività creative, giocare a pallone (“Serve molto a sfogarsi”), incontrare un mediatore culturale, qua c’è un posto per pregare. “Quando arrivano sono chiusi e stanno da soli al telefono. Poi, con l’aiuto di uno psicologo, si aprono e passano più tempo tra di loro“. Alì racconta ai ragazzi bolognesi poco più grandi di lui la sua storia, seduto vicino a lui c’è Muhamad; per loro è una pausa dalla distrazione del cellulare con cui tengono contatti sia con casa, sia con la rete di altri migranti con cui scambiano informazioni per sapere quando e come provare il ‘Game’.


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Alì è scappato, “my father had problems”, assieme alla sua famiglia, ma li ha persi durante il viaggio. Dice così ‘persi’, non specifica se non ci sono più o se, in una qualche circostanza, si sono separati senza ritrovarsi. Aggiunge invece e subito, “I have to study”, voglio studiare. Ma non qui, non in Bosnia. La Rotta Balcanica esiste dal 2015-2016 e si calcola l’abbiano percorsa 40.000 migranti; oggi in Bosnia se ne stimano tra i 5.500 e i 7.300. “Nessuno di loro vuole restare, e i numeri dimostrano che, nonostante tutto, riescono a passare il confine“, dice Lejla. Quando i ragazzi “parlano con la mamma al telefono, non dicono mai cosa fanno: dicono sempre che va tutto bene, che stanno bene”, racconta la volontaria. Ma appunto i respingimenti, come i tentativi di passare la frontiera, sono all’ordine del giorno (e di recente si dice siano ripresi anche gli allontanamenti con le scosse elettriche).

Se non tornano per noi è come sperare in una buona notizia“, confida chi li accoglie nei centri dove arrivano per riposarsi prima del tentativo successivo. “La soluzione? Sarebbe semplice: aprire le frontiere. Invece no, semmai l’Europa manda soldi…”. Ma in Bosnia, appunto, nessuno vuol restare. E allora ecco che serve il ‘piano b’, quello che si può fare è aiutare i migranti ‘sul campo’: con il centro per minori, come i centri diurni di Emmaus a Velika Kladusa, vicino al confine, o a Tuzla (molto più lontano dal ‘border’) dove i migranti arrivano, trovano docce, cibo, vestiti puliti, corrente per ricaricare i telefonini. Recuperano le forze per due-quattro ore e ripartono. “Senza, i due migranti picchiati dove andavano?”, dice Lejla aggiungendo che Emmaus ne vorrebbe aprire uno anche a Bihac, altro fronte caldo sul confine, ma tra burocrazia e nessuno che te lo affitta, è un’impresa.

Bihac dista 264 chilometri da Doboj Istock dove approda per la sua prima tappa il viaggio di ‘Bologna sulla rotta’, ma le notizie corrono veloci: a Bihac sono stati sgomberati gli ‘squat’, gli edifici abbandonati e diroccati più vicini al confine usati come ripari in attesa di tentare di notte di uscire dalla Bosnia. Pare che si stia valutando di far confluire tutti i migranti a Lipa, a 25 chilometri da Bihac, tutti: uomini, donne e bambini, facendone il campo ufficiale per chiunque. “Ma tanto da lì poi scappano, tornano negli ‘squat’… tutti lo sanno, ma tutti fanno le stesse cose”, dicono i volontari che li incontrano “disorientati ed esausti”. Tornano nei campi selvaggi dove al momento si stima ci siano 1.750 persone. Come a dire, non si esce e non se ne esce, senza il ‘piano a’, l’apertura delle frontiere. “In 10 anni che sono qui, la frontiera è la cosa più complessa”, dice Lejla. “Pochi giorni fa un ragazzo era arrivato in Slovenia e lo hanno rispedito in Croazia”. Ed è gente partita da Afghanistan, Pakistan, Marocco, Libia. Nonostante arrivino da mondi e culture differenti e lontane, tra i ragazzi “non ci sono bisticci né litigi, si aiutano”, evidenziano gli operatori.

Il centro diurno è una risposta alle esigenze, la cosa difficile è trovare chi offre uno spazio per fare attività con i migranti”, rimarca Lejla, mentre assieme alla delegazione di ‘Bologna sulla rotta’ vengono scaricati i pallet di materiale. Ed è solo l’inizio, presto ‘Bologna sulla rotta’ annuncerà una nuova fase di raccolta di beni e aiuti all’inizio di giugno in funzione di un nuovo viaggio. E “vanno benissimo anche i soldi– si spiega a chi a voglia di rimboccarsi le maniche- gli aiuti si possono comprare qua aiutando anche l’economia locale“.

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