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A Khartoum carriarmati, black out e saccheggi: ecco cosa sta succedendo in Sudan

Blackout elettrici e negozi saccheggiati: a Khartoum in Sudan la situazione è drammatica, dopo che anche la terza tregua è fallita e gli scontri sono ripresi

Pubblicato:24-04-2023 14:52
Ultimo aggiornamento:26-04-2023 10:03

khartoum sudan
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ROMA – Carriarmati nelle strade, negozi e stazioni di benzina saccheggiate e fragore di colpi d’arma da fuoco: appare così la capitale Khartoum, dove non ha retto neanche la terza tregua proclamata da esercito e Forze di supporto rapido (Rsf), da quando sono scoppiati gli scontri, il 15 aprile scorso. Per i tre giorni di festività di fine Ramadan, da venerdì a ieri, è stata infatti proclamata una tregua anche per permettere ai civili di trasferirsi in zone più sicure, tuttavia non è stata rispettata. Chi può dunque cerca di lasciare la capitale o il Paese, stranieri compresi.

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Come riferisce Al Jazeera, e confermano diversi giornalisti e residenti tramite i social network, sono sempre più frequenti i blackout elettrici e delle comunicazioni, così come non è garantito l’accesso all’acqua potabile. Si riporta inoltre che la paralisi delle attività commerciali sta lasciando vuoti gli scaffali dei supermercati, con denunce di saccheggi e furti. Secondo le Nazioni Unite sono oltre 400 i morti e 3.700 i feriti tra i civili coinvolti da dieci giorni nelle ostilità tra i militari fedeli al generale Abdel-Fattah Burhan e il leader dei paramilitari dell’Rsf, Mohammed Hamdan Dagalo, che si contendono il controllo delle risorse economiche e militari del Paese.


Oltre a lasciare la capitale, epicentro dei combattimenti, migliaia di sudanesi cercano di fuggire anche nei paesi vicini, in particolare il Ciad, subendo a loro volta attacchi di cui si accusano reciprocamente i due attori in guerra stando a quanto riferiscono fonti di stampa locali.

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La situazione umanitaria resta altamente incerta, come avvertono anche le organizzazioni umanitarie nel Paese tra cui Emergency – che ieri ha rimpatriato solo sette membri del suo staff di internazionali, che conta ora 46 persone accanto allo staff sudanese – e Save the Children, secondo cui il Sudan già conta 2,7 milioni di bambini malnutriti, e 522mila che soffrono di malnutrizione acuta grave. Le ong si uniscono all’appello lanciato dalla comunità internazionale al dialogo per porre fine alle violenze, dando priorità alla protezione dei civili già afflitti da crisi economica e povertà. Un messaggio rilanciato anche da Papa Francesco ieri nel corso dell’Angelus da piazza san Pietro, a Roma.

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I DIPLOMATICI STANNO RIENTRANDO IN TUTTI I PAESI

Data la gravità della situazione, le autorità di tanti Paesi – tra cui Italia, Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi e Canada – sono già riuscite a evacuare dal Sudan i propri connazionali e il personale diplomatico, spesso portando via anche cittadini di altri Paesi. Ma non tutti gli Stati hanno concluso le operazioni: Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha fatto sapere che è stato attivato il meccanismo di emergenza e un primo gruppo di connazionali sta raggiungendo i Paesi vicini, per accedere al ponte aereo che li riporterà in Cina.

Sale invece la polemica nel Regno Unito. Dopo aver evacuato ieri tutto il personale diplomatico, il ministro per lo Sviluppo internazionale e l’Africa Andrew Mitchell stamani ha dichiarato di non “poter dare nessuna certezza” ai circa 2mila connazionali registrati nel paese africano, e di “non esserne responsabile”, così come si apprende dall’emittente Bbc. A chi accusa Londra di aver lasciato indietro i propri connazionali, Mitchell ha spiegato che la messa in sicurezza del personale diplomatico “è un dovere legale” del dicastero, anche in considerazione del fatto che “esistevano precise minacce” per i diplomatici. Oltre all’attacco subito da un convoglio francese, sarebbe stato fermato e saccheggiato un convoglio del Qatar diretto verso Port Sudan, mentre è rimasto ucciso un cittadino iracheno e ferito anche un diplomatico egiziano.

“Fintanto che una tregua non sarà raggiunta, la nostra capacità di azione resterà limitata” aveva chiarito ieri il ministro degli Esteri James Cleverly, mentre il premier Rishi Sunak ha assicurato che il governo continuerà a lavorare per “garantire sicurezza” ai britannici rimasti in Sudan.
Quest’ultimo ieri ha sentito il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, e insieme hanno concordato di lavorare per raggiungere unc essate il fuoco coinvolgendo anche i partner internazionali.

RESIDENTE DA KHARTOUM: COL DARFUR SIAMO OSTAGGIO DI SCONTRI E FAME

“Dal 15 aprile la situazione non ha fatto che peggiorare, ci sono persone che restano intrappolate nei combattimenti e restano uccise. Non c’è alcun accesso agli aiuti umanitari. Se non si muore per i colpi d’arma da fuoco o nei bombardamenti, si morirà di fame“. A descrivere all’agenzia Dire la situazione che la popolazione sudanese sta vivendo in queste ore è Mohammad, un abitante di Khartoum che chiede di non diffondere il suo cognome per ragioni di sicurezza. Le ostilità scoppiate tra l’esercito nazionale e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), riflesso della lotta per la leadership economica e militare tra i rispettivi leader Abdel Fattah al-Burhan e Mohammed Hamdan Dagalo – soprannominato Hemeti – hanno “trasformato Khartoum in una città fantasma”, come ha detto alla stampa internazionale stamani il presidente del Sindacato dei medici sudanesi, Atiya Abdalla Atiya. Alla Dire Mohammad conferma questa situazione, condividendo immagini di case e strade ridotte a un cumulo di macerie. Una crisi che apre a profonda incertezza per il futuro del Sudan, impegnato in una complessa transizione politica, ma anche per la stabilità dei paesi vicini: “In questo momento i combattimenti si concentrano nella capitale Khartoum e nello Stato di Darfur Occidentale, in particolare nella città di Al-Geneina”, al confine col Ciad.

Se nella capitale – dove ora manca cibo, acqua ed elettricità – combattimenti di questa intensità sono un fatto inedito, nel Darfur la guerra “è di casa” a causa del conflitto esploso nel 2003, ed è a sua volta epicentro delle violenze: “Persone con cui sono in contatto- prosegue Mohammad- mi hanno riferito che stamani dei miliziani sono entrati a bordo di veicoli a motore e a cavallo ad Al-Geneina, subito dopo il ritiro delle forze ciadiane”, di stanza nella zona di confine, nel quadro di un accordo con la giunta sudanese raggiunto a gennaio scorso. Questo secondo il testimone, avrebbe provocato uno scontro diretto tra “i paramilitari e le truppe dell’esercito sudanese. In poco tempo i combattimenti hanno raggiunto il centro della città. La gente è bloccata nel fuoco incrociato”.

Mohammad continua spiegando che migliaia di sudanesi dal Darfur si stanno riversando nel vicino Ciad. Giovedì 20 aprile l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) avvertiva “del preoccupante aumento negli arrivi” di profughi, dove già tra le 10mila e le 20mila persone – in maggioranza donne e bambini – avevano superato la frontiera. L’Unhcr ha confermato di stare fornendo assistenza di emergenza alla popolazione in coordinamento con le autorità del Ciad, paese che accoglie già 400mila rifugiati sudanesi. In una nota il direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, Tigere Chagutah, riferisce che “Negli ultimi giorni, i civili sono stati ancora una volta vittime di uccisioni dovute all’utilizzo di armi pesanti in aree densamente popolate. È scioccante che a vent’anni dall’inizio del conflitto nel Darfur le autorità sudanesi non riescano ancora a proteggere i civili o a indagare e perseguire i presunti responsabili dei crimini“. Il governo del Sudan, conclude Chagutah, “deve assolutamente cooperare con le indagini in corso della Corte penale internazionale sul Darfur, anche consegnando all’Aia l’ex presidente Omar Al-Bashir e altri imputati sospettati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

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