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La femminista Sahar Salam: “Il velo non è uno strumento di oppressione in sé, l’Occidente lo capisca”

Parla l'attivista irachena, autrice delle 12 storie di "La voce della rivoluzione". Senza dimenticare l'Iran e Mahsa Amini

Pubblicato:23-11-2022 12:08
Ultimo aggiornamento:23-11-2022 12:08
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ROMA – “Siamo scese in strada per protestare contro l’uccisione di Mahsa Amini in un commissariato della polizia morale, avvenuta in Iran a settembre, e molte di noi lo hanno fatto indossando l’hijab. Il punto non è mettere o meno il velo, il cuore della questione è la libertà e la consapevolezza. Questo ancora non è molto chiaro al movimento femminista occidentale”. Sahar Salam premette di essere lei stessa una “femminista”, affrontando il tema in un’intervista con l’agenzia Dire, a Roma.

LE PROTESTE DEL 2019 IN IRAQ

La presenza di attiviste in piazza, ma più in generale di donne, anche senza una particolare connotazione politica, è stato uno degli elementi centrali della rivolta che ha attraversato l’Iraq nel 2019 e di cui Salam è stata una delle protagoniste. In tutto il Paese e soprattutto nella sua città, la capitale Baghdad di cui parti del centro sono state occupate per giorni, gli iracheni si sono mossi per protestare contro il settarismo, la violenza delle milizie armate, spesso connesse alla politica, e poi la corruzione e l’inefficacia nel contrastare la crisi economica.
“Si è levata poderosa la voce delle donne. Erano attiviste femministe a guidare le proteste, in piazze piene di uomini”, ricorda Salam, tornando a quando si avviava “verso i luoghi delle proteste. Avevo bisogno” racconta, “di identificarmi come attivista femminista”. Un senso di compartecipazione che dava alle donne in prima fila in piazza “il coraggio di gridare, un comportamento che ci è praticamente precluso dalle regole sociali in voga in Iraq, dove alle donne è sempre intimato di mantenere un tono di voce molto basso”.

“LA VOCE DELLA RIVOLUZIONE”

Il tema è al centro del libro ‘La voce della rivoluzione’, che Salam è venuta a presentare in Italia insieme all’ong Un Ponte Per e che raccoglie le storie di 12 di quelle donne, “diverse per età e percorso di vita, da studentesse che frequentavano la scuola a madri con figli”, spiega la stessa attivista. La pubblicazione è stata realizzata nell’ambito di un progetto di sostegno ai movimenti femministi iracheni denominato ‘Al-Thawra Untha’, letteralmente “la rivoluzione è donna”, che Un Ponte Per porta avanti grazie al finanziamento del ministero degli Affari esteri dei Paesi Bassi e insieme al Centro d’informazione per la ricerca e lo sviluppo iracheno (Icrd).


NEL NOME DI MAHSA

Il movimento femminista iracheno non si è esaurito con la rivolta del 2019 ed è tornato in strada, in contemporanea con le società civili di tanti Paesi del mondo, per sostenere le proteste che sono scoppiate nel vicino Iran dopo la morte di Amini, morta mentre era in custodia della “polizia morale”, che l’aveva precedentemente fermata con l’accusa di non indossare l’hijab in modo conforme alle regole in vigore.
“Diverse di noi lo indossavano manifestando in piazza, perché noi non lo consideriamo assolutamente uno strumento di oppressione di per sé”, afferma Salam, che porta lei stessa il velo che copre i capelli fino all’attaccatura. “E’ importante”, specifica, “che la scelta di indossarlo sia consapevole e soprattutto che non sia il frutto di pressioni o costrizioni”.
Concetti, questi, non facili da comunicare al resto del movimento femminista. “L’idea non viene accettata da molte delle realtà di attivismo femminile occidentale” dice Salam. “C’è ancora uno schema ideale al quale bisogna aderire per essere considerate ‘femministe’. E’ un mondo ancora in fase di definizione, non risolto”.

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