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Addis Abeba rifiuta i mediatori nel Tigray: “Arrendetevi”

I militari avanzano su Macallè "senza pietà". L'attivista Ogabghiorghis: "Questa è pulizia etnica"

Pubblicato:23-11-2020 10:15
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:37
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ROMA – Gli inviati dell’Unione Africana incaricati di mediare nel conflitto tra il governo federale dell’Etiopia e i dirigenti del Tigray non visiteranno la regione: lo hanno riferito collaboratori del primo ministro Abiy Ahmed, mentre le forze di Addis Abeba circondavano la roccaforte “ribelle” Macallè.

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Secondo Mamo Mihretu, un consigliere dell’esecutivo, se i responsabili del Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) vogliono porre fine al conflitto “devono soltanto arrendersi pacificamente” e “per questo non c’è bisogno che nessuno vada nel Tigray o a Macallé per spiegarglielo”. Gli inviati dell’Unione Africana, nominati venerdì, sono il presidente mozambicano Joaquim Chissano, l’ex capo di Stato liberiano Ellen Johnson-Sirleaf e l’ex presidente sudafricano Kgalema Motlanthe. In una nota diffusa ieri, Abiy ha dato alle forze tigrine un ultimatum di 72 ore. Emittenti televisive di Stato hanno riferito che alle porte della città si stanno concentrando carri armati e pezzi di artiglieria.


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Macallè è situata su un altipiano a circa 2.500 metri di altezza. In città vivono all’incirca 500.000 persone. Ufficiali dell’esercito federale hanno detto che non ci “sarà pietà” e che i civili dovranno “mettersi in salvo” prima dell’offensiva finale. Secondo il colonnello Dejene Tsegaye, portavoce delle forze di Addis Abeba, “ci saranno bombardamenti con l’artiglieria“. Secondo le Nazioni Unite, nelle ultime due settimane circa 30.000 persone sono fuggite dai combattimenti oltrepassando il confine con il Sudan. L’Onu prevede che la crisi possano spingere a lasciare le proprie case almeno 200.000 etiopi.

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LA DENUNCIA DI CHI VIVE IN ITALIA: “UN MASSACRO”

Oltre alla paura tra la popolazione locale, anche le comunità di tigrini all’estero affrontano ore di angoscia, come ha confermato all’agenzia Dire Tesfalem Ogabghiorghis, cittadino etiope originario del Tigray e residente a Roma dal 1997, che con suoi connazionali sta raccogliendo fondi da inviare ai rifugiati in Sudan. L’Onu ne conta già 30.000 dall’inizio dell’offensiva. “Dal 4 novembre non abbiamo più contatti con parenti e amici nel Tigray perché il governo di Addis Abeba ha interrotto le comunicazioni e l’erogazione della corrente elettrica” racconta l’uomo. “Se potessi tornare, non troverei più fratelli e nipoti, nessuno dei miei vicini di casa e vecchi amici. Il governo di Abiy Ahmed sta massacrando la popolazione di un’intera regione: questa è pulizia etnica”. Secondo Ogabghiorghis, le sole informazioni a cui gli etiopi all’estero hanno accesso sono quelle diffuse “dall’emittente locale Tigray Tv e sono notizie terribili”. L’attivista riferisce di “massacri da parte dell’esercito: i soldati fermano le persone in strada e controllano i cellulari. Se trovano prove di legami con il Tigray People Liberation Front (il Tplf, il partito al potere che guida anche la milizia ribelle, ndr) vengono uccisi a sangue freddo. È successo a Scirè e Adigrat”.

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