ROMA – Silvia è rimasta a Milano ad attendere una sentenza auspicata da 6 anni. Beppe, il padre ‘famoso’ di Ciro, uno degli accusati- ora riconosciuto da un tribunale come uno dei suoi stupratori- era con moglie e figli a Genova, mentre è arrivata addosso a tutti loro ‘una doccia fredda’. La famiglia Grillo ha lasciato il proprio legale parlare, loro si sono chiusi nel riserbo. Pure Beppe, che in passato non ha lesinato post e video – molto criticati- a difesa del figlio, questa volta si è trattenuto da dichiarazioni ufficiali, per ora.
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LA CONDANNA A 8 E 6 ANNI PER VIOLENZA SESSUALE DI GRUPPO
Ieri pomeriggio, lunedì 22 settembre, è dunque arrivata la sentenza sui ‘fatti’ avvenuti a Porto Cervo, in Sardegna, la notte del 16 luglio 2019, nella villa della famiglia Grillo. Tutti e quattro i ragazzi genovesi sono stati condannati per violenza sessuale di gruppo: 8 anni di reclusione a Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Ciro Grillo, il figlio di Beppe, fondatore del Movimento Cinque Stelle. Sei anni e sei mesi, invece, per Francesco Corsiglia. Ad accusarli due ragazze, la prima a farlo è stata Silvia, solo dopo l’amica, quando, a indagine già avviata, ha scoperto dell’esistenza di un video che mostrava cosa le era stato fatto mentre dormiva, senza che si fosse accorta di nulla. Nel 2019 tutti i protagonisti di questo dramma avevano 19 anni.
LA FAMIGLIA GRILLO TRA “DELUSIONE E AMAREZZA”, PRONTA AD ANDARE AVANTI
A parlare per la famiglia Grillo è l’avvocato di Ciro, Enrico Grillo, che è anche legato da parentela stretta con Ciro e Beppe (cugino del ragazzo, nipote di suo padre). A fine giornata ha raccontato ai cronisti che la sentenza ha provocato “delusione e amarezza” in tutta la famiglia. Parla anche e soprattutto da avvocato: “Siamo molto delusi dall’esito di questo primo grado perché riteniamo che sia assolutamente incompatibile con la mole di contraddizioni della ragazza. Continueremo a gridare con forza la nostra innocenza, andremo avanti finché qualcuno non ci ascolterà. Per adesso non possiamo far altro che aspettare le motivazioni”. Insomma, c’è da aspettarsi che la faccenda per i Grillo- e per tutti i ragazzi condannati- non si chiuda qui. Oggi il Corriere della Sera riferisce i commenti di fonti vicine a “Beppe e Parvin”, i genitori di Ciro: “Erano preoccupati per una possibile sentenza dura. Un’eventualità che ovviamente scongiuravano”. E ancora, “Loro credono e hanno sempre creduto nell’innocenza di Ciro”, aggiunge la fonte. E “Beppe-assicura poi- non si arrenderà al primo ostacolo”.
IL PIANTO DI SILVIA: “IL MIO DOLORE DIA CORAGGIO AD ALTRE VITTIME”
Anche Silvia – che non è il vero nome della ragazza-vittima del branco- non ha parlato direttamente ma ha preferito affidare i suoi pensieri alla sua avvocata, Giulia Bongiorno. A sentenza ancora calda, ieri, la senatrice- che porta avanti da anni le battaglie delle donne vittime di violenza con la sua associazione “Doppia Difesa”- ha riferito come la ragazza, una volta saputo della sentenza- sia scoppiata a piangere. “Piangeva così tanto che non è riuscita a dire nient’altro che una parola: grazie. L’avrà ripetuta cento volte”, ha detto ai cronisti fuori dal tribunale, dove Silvia, così come gli stessi condannati, non erano presenti. Un decisione presa su suggerimento della legale per non rischiare che venisse compromessa la riservatezza sulla sua vera identità, difesa duramente in tutti questi anni.
Poi, all’indomani, alla stessa Buongiorno ha affidato alcune sue riflessioni sull’esito del processo: “Questa grande sofferenza ora ha un senso”, ha riferito Bongiorno al Corriere della Sera. “Credo- ha aggiunto- che questo mio dolore possa dare coraggio anche ad altre donne”.
“FATTI E TESTIMONIANZE, NON SOLO LA PAROLA DELLA VITTIMA”
Per Silvia è stato un “lungo e doloroso percorso”, ha ricordato l’avvocatessa: in aula ha dovuto rispondere alle 1.675 domande degli avvocati dei condannati, che tuttora contestano la sua credibilità. Credibilità che, diversamente, i giudici di primo grado, con la loro sentenza, hanno invece attestato. “Quando a una ragazza si fanno migliaia di domande e se risponde un ‘non ricordo’, si dice che ha detto il falso, si può anche temere di non essere creduti”, spiega la senatrice. “Ma noi avevamo una certezza: non c’era solo la parola della vittima contro il colpevole, c’erano fatti, testimonianze”. Anche per questo il quasi certo ricorso in appello fa meno paura.







