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Iraq, l’attivista Alaa: “Né Usa né Iran, vogliamo essere liberi”

Secondo gli attivisti sono circa 600 i manifestanti che hanno perso la vita negli ultimi mesi, almeno otto solo questa settimana

Pubblicato:23-01-2020 16:54
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 16:53
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ROMA – “La guerra e’ soltanto un modo per polarizzare nuovamente la politica e allontanare l’opinione pubblica dalle proteste popolari che, come quella irachena, chiedono indipendenza e sovranità”. Ahmed Alaa, 28 anni, si definisce “attivista per i diritti umani e sociali” e risponde alle domande dell’agenzia Dire via e-mail, da Erbil. Skype, preferisce non usarlo: si scusa ma, spiega, la rete e’ monitorata e ci sono dubbi sulla sicurezza dell’applicazione.

“Forse qualche sparuto manifestante ha festeggiato per l’uccisione di Soleimani – ammette l’attivista – ma questo non significa che sostenga un intervento americano. È una reazione spontanea, visto che Soleimani ha avuto un ruolo importante nel gestire la repressione delle proteste. Tutti, nelle piazze, sono contrari alle interferenze di Stati Uniti e Iran e ai loro abusi in Iraq”.

A Erbil, Alaa e’ dovuto tornare da Baghdad poco dopo l’inizio della seconda ondata di manifestazioni che da alcuni mesi stanno scuotendo il Paese, non senza rammarico. “Sono qui dalla fine di ottobre” ricorda. “Prima le milizie avevano provato a prendermi.
Ho avuto la fortuna di riuscire a scappare, percio’ sono venuto qui in Kurdistan”.


Da questa regione, “relativamente tranquilla”, l’attivista segue con costanza gli aggiornamenti sulle proteste di piazza Tahrir, che pubblica regolarmente sui social network. Come foto di copertina per il suo profilo, ha scelto un’illustrazione che ritrae Safa Al-Sarray, un artista 26enne ucciso a ottobre da un lacrimogeno che lo ha colpito alla testa mentre protestava pacificamente a piazza Tahrir.

Sono centinaia i giovani iracheni che hanno perso la vita come Safa negli ultimi mesi. Gli attivisti ne contano circa 600, solo questa settimana almeno otto, dopo la nuova ondata di manifestazioni degli ultimi giorni.

Questa e’ partita allo scadere di un ultimatum con cui il movimento di piazza Tahrir chiedeva un governo tecnico presieduto da una figura indipendente dall’establishment, elezioni anticipate e la persecuzione penale dei responsabili delle morti dei manifestanti.

“Abbiamo occupato pacificamente parte delle strade e visto ancora crescere la violenza delle autorita’ e delle milizie legate ai partiti, che hanno sparato proiettili reali contro i dimostranti” denuncia Ahmed.

La sua generazione e’ quella di chi ha partecipato, ancora adolescente, ai movimenti della cosiddetta Primavera araba del 2011. Ora, quasi trentenne, e’ pienamente coinvolto nella nuova ondata di movimenti. “Ho iniziato a partecipare alle proteste nel 2011. Quell’anno, io e i miei amici eravamo stati sequestrati. Le forze di sicurezza irachene ci avevano fatto sparire con un’ambulanza.

Dopo il mio rilascio, sono ritornato in piazza e ho partecipato, negli anni, a diverse fasi del movimento” spiega Ahmed. “L’ultima e’ eccezionale” scrive, vantando l’autorita’ del militante di lungo corso: “Negli ultimi anni, ad esempio, non abbiamo mai visto una simile partecipazione femminista. Non e’ solo cresciuta in termini numerici, ma anche di diffusione: anche nelle citta’ piu’ tradizionaliste, le donne hanno partecipato in modo massiccio”.

Un altro aspetto dell’ultima ondata di proteste e’ l’occupazione di uno spazio abbandonato, pratica molto poco diffusa in Medio Oriente rispetto a quanto avviene in Europa. Il Ristorante turco, situato sull’ultimo dei 14 piani di un palazzo di Baghdad inaugurato negli anni ’80, all’epoca di Saddam Hussein. Piu’ volte bombardato dagli Stati Uniti, l’edificio era utilizzato per reprimere le manifestazioni di ottobre. Da qui, come denuncia anche un recente documento della rete Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, i cecchini potevano controllare tutta piazza Tahrir e sparare sui manifestanti.

“È la prima esperienza di occupazione non violenta da parte della nostra gente” sottolinea Ahmed: “Questo palazzo abbandonato si e’ trasformato in un luogo di speranza. All’inizio di ottobre i ragazzi lo avevano occupato per proteggersi dai cecchini, piu’ tardi e’ diventato un rifugio per i manifestanti, da cui far partire tante attivita’. Ora ospita una biblioteca, seminari, una galleria fotografica e tanto altro”.

Tra gli slogan scanditi dai dimostranti, le frasi esposte sugli striscioni del Ristorante turco e quelle dipinte sui muri, Ahmed sceglie facilmente le parole per sintetizzare le richieste dei ragazzi di piazza Tahrir. “Vogliamo una patria che ci rispetti, che ci tratti da esseri umani” sottolinea l’attivista. “Da quando siamo nati abbiamo visto solo guerra, distruzione e violenze. Vogliamo una terra che rassomigli ai nostri sogni”.

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