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Violenza sulle donne, l’85% delle vittime non aveva denunciato. Il magistrato: “Sfiducia nel sistema giudiziari”

Il magistrato e vicepresidente vicario del Tribunale di Milano Fabio Roia al convegno 'Processo civile: criticità e aspetti positivi nei percorsi di uscita dalla violenza delle donne'

Pubblicato:22-11-2021 20:35
Ultimo aggiornamento:22-11-2021 20:36
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ROMA – “Sul tema della violenza sulle donne manca la specializzazione, non solo dal punto di vista giuridico: manca la conoscenza di elementi che non stanno nel diritto“. A dirlo il magistrato e vicepresidente vicario del Tribunale di Milano Fabio Roia intervenuto oggi pomeriggio al convegno ‘Processo civile: criticità e aspetti positivi nei percorsi di uscita dalla violenza delle donne’, organizzato dall’associazione Demetra, donne in aiuto.

Serve formazione interdisciplinare– ha proseguito Roia- io per poter fare processo orientato dal genere, devo conoscere le caratteristiche della donna che subisce violenza, intanto accettando la formazione delle operatrici dei centri antiviolenza”. Per il magistrato, che da tempo si occupa di processi che coinvolgono violenza di genere, è fondamentale che i giudici conoscano “l’ambivalenza dei sentimenti delle donne vittime di violenza, che denunciano e poi ritrattano” e che si rivolgano quindi “a criminologi o psicologi che lavorano sui maltrattamenti per farsi spiegare che gli uomini coinvolti sono molto manipolatori, ingannano il giudice e tendono a minimizzare o negare la violenza”.

A tal proposito Roia ha citato il caso di Juana Cecilia Hazana Loayza, la 34enne uccisa ieri dal suo compagno maltrattante e già condannato per atti persecutori nei confronti della donna: la pena gli era stata ridotta a due anni con la condizionale perché aveva accettato di frequentare gli incontri di un centro di recupero per uomini maltrattanti. “Non conosco il caso ma c’è stata una sottovalutazione del rischio da parte di chi ha fatto l’accordo”.


Inoltre, gli uomini violenti non devono essere mandati nei centri “in maniera convenzionale e solo per ottenere benefici sul piano giudiziario ma ci vogliono sentinelle di controllo da parte degli operatori per far sì che i soggetti prendano consapevolezza che la violenza contro le donne è una stortura del comportamento. Solo quando si acquisisce questa consapevolezza- ha spiegato il magistrato- diminuisce il rischio di recidiva”.

Tornando sul tema della necessità di specializzazione dei magistrati, Roia ha ricordato che già nel 2008, nel 2014 e nel 2018 il Consiglio superiore della magistratura aveva indicato, fra le buone pratiche in merito al contrasto della violenza di genere, “che i magistrati si formino nel contesto della rete di protezione della donna, ascoltando le operatrici dei centri antiviolenza, i medici legali, gli assistenti sociali, gli psicologi”. Tuttavia, ha spiegato il magistrato, il monitoraggio della Commissione d’inchiesta sul femminicidio sulla risposta giudiziaria alla violenza di genere negli anni 2017-2018 “rappresenta una situazione a macchia di leopardo con un buon tasso di specializzazione nella magistratura, visto che il 90% delle procure ha almeno un Pubblico ministero specializzato in reati orientati al genere, ma- ha continuato Roiasolo il 24% dei tribunali ha uno o più giudici specializzati in questo settore“.

Il dato è allarmante, anche alla luce del fatto che il giudice “deve giudicare la credibilità della prova, che in questi contesti è quasi sempre solo la narrazione accusatoria della donna”. E spesso il giudice non specializzato “giudica come fattori di incoerenza ad esempio le ritrattazioni della donna, che invece sono tipiche di chi è vittima di violenza domestica”. Per Roia questo è legato anche alla mancanza di personale (il 14% della magistratura) per cui “i magistrati lavorano con estremo affanno e può essere che uno arrivi ad accettare un patteggiamento per togliersi il procedimento”.

Ma anche poca conoscenza delle dinamiche della violenza domestica: “spesso non si capisce che le ritrattazioni sono state fatte in un periodo di forte manipolazione- ha spiegato Roia- nella cosiddetta ‘luna di miele’ del ciclo di violenza durante il quale la donna crede all’uomo violento e si fida. Non si sa- ha ribadito- che si può uscire solo quando c’è una forte presa di coscienza da parte dell’uomo, che assume consapevolezza dei reati. Ma perché ciò accada, è necessaria un’autorità esterna, non avviene mai in ambito solo familiare”. O ancora, “la donna attribuisce la violenza a sé stessa, ritenendosi un soggetto inadeguato. E su questo il contesto sociale è ambiguo”.

Lo stesso report della Commissione d’inchiesta ha messo in luce che “solo il 15% delle donne uccise aveva denunciato: l’85% vivono in silenzio la violenza domestica e di loro il 6% non ne aveva neanche parlato con un amico o familiare”. Tra le varie cause, per Roia, “il senso di colpa o vergogna, l’assenza di indipendenza economica ma anche la sfiducia nel sistema giudiziario perché tante volte il sistema dà una risposta di vittimizzazione secondaria e la vittima, in violazione alla Convenzione di Istanbul, non viene protetta”.  

Roia ha infine ricordato che “certamente oggi in Italia c’è una realtà normativa e giudiziaria molto evoluta anche grazie alla spinta di atti sovranazionali e abbiamo un ottimo sistema di leggi per reprimere la violenza. Ma la questione non si risolve solo nei palazzi di giustizia, è un problema sociale e culturale”, ha concluso

La decisione della Corte di Strasburgo sul caso del piccolo Federico Barakat è stata di tipo tecnico”, aggiunge Roia. Sul caso del piccolo Barakat, ucciso nel 2009 dal padre nel corso di un incontro protetto, la Corte di Strasburgo si è espressa lo scorso settembre assolvendo lo Stato italiano, in quanto non responsabile dell’incolumità del bambino.

“C’è un vuoto normativo- ha spiegato Roia- che è stato rilevato nella nostra legislazione e proprio per colmare questo problema interpretativo in Italia abbiamo avuto sentenze di segno opposto sulla responsabilità di chi organizza l’incontro”. Tuttavia adesso “c’è un disegno di legge proposto in Commissione femminicidio proprio per chiarire i ruoli in situazioni tragiche come quella di Federico“.

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