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Cina, Isa (Tribunale uiguro): “Aprite gli occhi, condannate Pechino”

Le accuse vanno dalla negazione, dei documenti di identità fino alla sterilizzazione forzata delle donne e la chiusura indiscriminata di oltre un milione di persone nei cosiddetti "campi di rieducazione"

Pubblicato:22-06-2021 16:25
Ultimo aggiornamento:22-06-2021 16:25

xi jinping cina
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ROMA – “Il Tribunale degli uiguri non ha valore legale perché non è riconosciuto, è un organismo popolare, tuttavia la decisione che assumerà a dicembre rappresenterà un obbligo morale per i governi e per l’opinione pubblica mondiale che finora hanno voltato la testa dall’altra parte: bisogna chiedere conto a Pechino di quello che sta facendo contro la minoranza degli uiguri. Ha già commesso crimini contro l’umanità e un genocidio”. Così all’agenzia Dire l’attivista Dolkun Isa, presidente del Congresso mondiale degli uiguri.

Dal momento che Pechino non riconosce la Corte penale internazionale dell’Aia, il Congresso ha collaborato per istituire un tribunale popolare, il primo indetto su questo tema, incaricato di valutare le accuse contro Pechino di violenze e persecuzioni a danno della minoranza degli uiguri e dei kazaki, per lo più di fede musulmana, nella regione nord-occidentale dello Xinjiang. La prima udienza si è svolta dal 4 al 7 giugno, la seconda si terrà probabilmente nella prima metà di settembre e poi la giuria dovrebbe emettere la sentenza a inizio dicembre.

Le accuse vanno dalla negazione, dei documenti di identità fino alla sterilizzazione forzata delle donne e la chiusura indiscriminata di oltre un milione di persone nei cosiddetti “campi di rieducazione”, come li definisce il governo di Pechino. Per gli attivisti, invece, si tratta di prigioni dove le persone sono ai lavori forzati. “Dal 2019 ne sono stati costruiti almeno altri 200, sono veri e propri campi di concentramento– dice il presidente del Congresso- tra cui fabbriche e fattorie, e le immagini satellitari lo confermano”. Il 10 giugno in un report anche Amnesty international ha denunciato “l’eliminazione culturale” a cui queste minoranze sono soggette, che passerebbe per il divieto di parlare la propria lingua e andare in moschea fino al tema delle sterilizzazioni. Quanto ai campi, Amnesty ha a sua volta citato rilevamenti satellitari e testimonianze di una cinquantina di persone tra giornalisti, attivisti e sopravvissuti ai campi di lavoro.


Isa tiene a fare una precisazione: “Non esistono in realtà sopravvissuti a questi campi. Chi ne è uscito aveva la doppia nazionalità, pertanto ha goduto del sostegno dei governi stranieri. Senza legami con l’estero è impossibile per gli uiguri lasciare la Cina. Il governo cinese a partire dal 2016 ha ritirato i passaporti delle minoranze etniche presenti nello Xinjiang, quindi se prima del 2016 era molto complicato ottenerlo – servivano anni e tante trafile burocratiche, nonché ‘bustarelle’ ai funzionari – ora è semplicemente impossibile”.

Alla prima udienza del Tribunale uiguro hanno quindi testimoniato 24 persone tra sopravvissuti ai campi o familiari delle vittime, ma tutti con doppia nazionalità. “Persone molto coraggiose” osserva Isa, perché “la Cina minaccia coloro che parlano di questo fenomeno, arrivando a compiere ritorsioni sui familiari rimasti in Cina”. Secondo stime del Congresso, solo in Kazakistan ci sarebbero almeno 2.000 persone che hanno trascorso un periodo di tempo in uno di questi campi ma non intendono parlarne. Il silenzio però lascia nel limbo gli abitanti dello Xinjiang: “Vivono sapendo che da un momento all’altro potrebbero essere deportati. Non ci sono motivi legali, la polizia ti prende e basta”.

Sempre nel corso della prima udienza sono stati ascoltati anche 14 esperti, per valutare la veridicità delle immagini satellitari e delle altre prove raccolte dal Congresso uiguro per istruire il processo. Un lavoro tutt’altro che facile, assicura il presidente: “La Cina non permette di ottenere informazioni precise”. Lo stesso Isa, quando era ancora studente universitario, è stato costretto a lasciare la Cina per il suo attivismo a favore dei diritti degli uiguri nel 1988, l’anno prima della mobilitazione popolare di Piazza Tienanmen. Da allora, ricorda, “non sono più tornato”. Dal 2017 il presidente del Congresso uiguro ha dovuto tagliare ogni rapporto con la famiglia: “Sono venuto a conoscenza della morte di mia madre, rinchiusa in uno di questi campi, dai media internazionali. Le autorità non mi hanno permesso di sapere altro sulle circostanze della sua scomparsa”.

Sulla stessa natura dei campi, secondo Isa, le autorità mentirebbero: “Parlano di ‘rieducazione’ delle persone di religione musulmana, giocando la carta della radicalizzazione e del ‘terrorismo islamico’. Un termine che Pechino ha inizato a usare nei giorni immediatamente successivi agli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti: ha compreso che era un concetto di grande impatto per la comunità internazionale, al fine di giustificare certe misure di sicurezza interna”.

Isa stesso, racconta l’attivista, è stato iscritto da Pechino nella lista dei terroristi internazionali: “Dal 2001 non ricordo più quante volte sono stato fermato negli aeroporti per controlli e accertamenti, dagli Stati Uniti alla Corea del Sud. Persino le autorità italiane mi hanno trattenuto all’ingresso del Senato nel 2017, sebbene fossi stato invitato dall’ex senatore Luigi Campagna a parlare della questione uigura”.

Isa però assicura: “Questo non mi ha mai fermato e alla fine molti governi hanno compreso che il Congresso uiguro è un’organizzazione pacifica che si batte per la democrazia e la libertà“. Una posizione che Pechino contrasta, accusando il Congresso di ricevere fondi diretti dalla Cia per alimentare la narrativa anti-cinese nell’ambito della “guerra fredda” che Washington starebbe conducendo contro Pechino per la leadership economica globale. “Non abbiamo mai preso fondi dalla Cia né da nessun altro servizio di intelligence straniero” dice Isa: “Pechino vuole screditarci perché la comunità internazionale non crede più alle sue bugie”.

Mongelli: “Con ‘Made in Slavery’ racconto il rapporto tra i campi e la moda”

Per raccontare la realtà del lavoro forzato e le collusioni di almeno 80 brand internazionali della moda, che sfruttano queste produzioni praticamente a costo zero, la vicepresidente della Federazione italiana diritti umani (Fidu), Eleonora Mongelli, ha realizzato il podcast in quattro episodi ‘Made in Slavery’. All’agenzia Dire ha dichiarato: “Esistono prove schiaccianti delle violazioni commesse dalla Cina, tra cui aborti e sterilizzazioni forzate, lavoro forzato nei campi di cotone e nelle fabbriche, dove manca assistenza medica e qualsiasi forma di diritto”.

Queste politiche, continua la vicepresidente di Fidu, sono cominciate quando è stato nominato Chen Quanguo governatore della regione: “E’ stato governatore del Tibet, quindi ha esperienza nel reprimere le minoranze”. Quanguo secondo Mongelli è ritenuto “l’architetto dei campi e della sorveglianza di massa”. Tutte accuse da cui Pechino si smarca bocciandole come “fake news”.

“Però intanto vieta le inchieste indipendenti” dice Mongelli. “Ad esempio, è stato accettato un team di giornalisti dell’emittente Bbc, ma ai reporter non è stato permesso di muoversi liberamente nel Paese: hanno semplicemente partecipato a un tour organizzato dal governo”.
Forte sarebbe anche la censura interna. “Gli attivisti- dice Mongelli- ci raccontano che in Cina è tutto bloccato: numerosi siti internet, tra cui Youtube, e i social network. Persino i sistemi di messaggistica istantanea attraverso il sistema delle ‘parole chiave’ bloccano la ricezione di messaggi contenenti certe parole, ad esempio ‘Hong Kong’ nei giorni delle proteste nella città-stato oppure ‘Piazza Tienanmen’ a ridosso
dell’anniversario della protesta anti-governativa del 1989″.

L’autrice del podcast avverte che per Pechino “i diritti sono una questione interna. Però- continua- la questione uigura chiama in causa tutto il mondo“. Mongelli ricorda che la Cina è il primo produttore mondiale di cotone, e l’80% viene coltivato proprio nello Xinjiang. “E’ un tipo di qualità particolarmente alta e apprezzata dai marchi di moda internazionali, quindi- avverte la ricercatrice- serve a fabbricare anche i vestiti che noi indossiamo”.

Seppur prodotto a basso costo e con sospetti di riduzione in schiavitù, le aziende del tessile “danno la precedenza ai profitti”. Anche l’Unione europea secondo Mongelli non sta agendo in modo etico. Prima che il parlamento europeo a maggio scorso sospendesse l’Accordo di investimenti tra Europa e Cina, “l’Europa non aveva posto alcuna condizione circa il rispetto dei diritti umani e in particolare sul lavoro forzato” denuncia ancora l’esperta, osservando che da parte delle istituzioni europee “non è stato neanche richiesto alla Cina di ratificare le convenzioni internazionali contro il lavoro forzato”.

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