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Attivista comunità Rohingya: “Molto preoccupati dalla possibilità di rimpatri in Myanmar”

Circa un migliaio di rifugiati vivono nel campo profughi Cox’s Bazar in Bangladesh

Pubblicato:22-03-2023 14:12
Ultimo aggiornamento:22-03-2023 14:14
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fondatore di Team of Shabe Bazaar comunità rohingya
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ROMA – “Siamo molto preoccupati dalla possibilità che circa un migliaio di rifugiati che vivono nei campi possano essere rimpatriati in Myanmar; queste persone rischiano di essere mandate in villaggi abbandonati ormai da anni e di essere l’obiettivo della rabbia di tre diverse realtà: l’esercito birmano, la milizia dell’Arakan Army e le altre comunità presenti nello Stato di Rakhine”. A parlare con l’agenzia Dire è il fondatore di Team of Shabe Bazaar, un’organizzazione di profughi della comunità rohingya nata tre anni fa “per aiutare nell’accesso ai servizi di base le persone più bisognose che abitano nei campi di Cox’s Bazar”. Una località del Bangladesh sud-orientale, questa, che ospita la più grande comunità di profughi del mondo.

Oggi una delegazione del governo birmano si è recata nella località bengalese per discutere della possibilità di rimpatriare poco più di 1100 profughi Rohingya, originari in larga parte dello Stato birmano di Rakhine, il cui confine dista appena 25 chilometri dai campi profughi. Stando al commissario del Bangladesh per il Sostegno e il rimpatrio dei rifugiati da Cox’s Bazar, Mohammed Mizanur Rahman, citato dai media internazionali, 711 persone sarebbero già state dichiarate pronte a essere trasferite in Myanamar, mentre altri 429 casi sono ancora in via di discussione. Il dirigente di Dacca non ha però fornito alcuna tempistica.

Le persone rohingya che vivono nelle strutture allestite a Cox’s Bazar sono circa un milione e sono arrivate per la stragrande maggioranza a partire dal 2017, quando le forze armate del Myanmar hanno avviato un’offensiva contro la comunità anche nel contesto di un conflitto con l’Arakan Army, una milizia locale che combatte per un modello di Stato federalista su base etnica. Le violenze del 2017 hanno rappresentato l’ultima fase di decenni di discriminazioni contro i rohingya, comunità di fede musulmana in un Paese a maggioranza buddista ai cui esponenti è negata da decenni la cittadinanza birmana e tutti i diritti che ne conseguono. E’ arrivato in Bangladesh nel 2017 anche l’attivista ascoltato dalla Dire, che è originario del villaggio da cui prende il nome la sua organizzazione, Shabe Bazaar, e che preferisce rimanere nell’anonimato per questioni di sicurezza.


I delegati che sono giunti oggi nel campo hanno ascoltato alcune famiglie, facendo molte domande rispetto alle loro origini” riferisce il fondatore dell’associazione. “Le persone sono state intervistate a gruppi di due famiglie ciascuno” aggiunge l’attivista. “Siamo molto preoccupati all’idea che le persone possano essere trasferite nei loro villaggi di origine, ormai abbandonati completamente in molti casi”, ribadisce la fonte della Dire. “Molte delle famiglie verranno mandate in numero molto piccolo in aree dove rischiano di essere l’obiettivo di attacchi della milizia Aa, dell’esercito birmano e poi dalle altre comunità che vivono nella zona”. Il contesto birmano a cui fa riferimento l’attivista rohingya è segnato da due anni di resistenza contro un colpo di stato militare che si è verificato nel febbraio 2021 e da un conflitto fra le forze armate regolari e le milizie armate di base nei vari “Stati etnici” del Paese, latente da anni e pure rinvigorito nell’ambito delle tensioni che hanno seguito il golpe.

Pensiamo che i crimini contro l’umanità, le discriminazioni e gli abusi di sui siamo vittime non smetteranno”, denuncia ancora l’attivista. “La comunità rifiuta l’idea di questi trasferimenti in assenza di un dialogo strutturato e della garanzia di un impegno concreto sul piano del rispetto dei diritti”. Negoziati per il rimpatrio nel Rakhine dei profughi di Cox’s Bazar proseguono da anni fra il Myanmar e il Bangladesh. Le mediazioni erano state interrotte dopo il golpe ma sono riprese a gennaio di quest’anno, anche con la mediazione cinese. “Pensiamo che i due Paesi abbiano raggiunto un accordo ma ci sembra che non abbiano alcuna intenzione di comunicarcene i contenuti“, denuncia l’attivista. Se il ritorno in Myanmar equivale a “una tomba” per molti, a detta della fonte ascoltata dalla Dire, anche rimanere a Cox’s Bazar presenta una serie di difficoltà. La settimana scorsa un rogo che si è esteso in tre campi della città ha costretto 12mila profughi a fuggire dalle loro abitazioni di fortuna. Nel marzo 2021 un altro incendio aveva causato la morte di 15 persone. “Sono passati giorni dal fuoco della scorsa settimana”, denuncia l’attivista, “ma queste persone sono ancora in una condizione di grave difficoltà, private ancora di tutti i servizi essenziali”.

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