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Sedicenne morto a Riccione, il medico: “Serve riduzione del danno. Invece si fa solo repressione”

Qualche anno fa gli operatori erano in discoteca, distribuivano acqua. oggi non si fa più

Pubblicato:21-07-2015 15:07
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 20:27

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BOLOGNA – “Perché nessuno prende in considerazione che il ragazzo sia morto per ipertermia maligna? Perché tutti si limitano a dare la colpa all’ecstasy? Io credo sia morto per il modo in cui ha assunto la sostanza”. Salvatore Giancane, medico tossicologo, professore a contratto della Scuola di specializzazione in psichiatria, non ci sta: con una lunghissima esperienza alle spalle nella cura e nell’assistenza a tossicodipendenti, non ammette semplificazioni sulla morte del sedicenne di Città di Castello (Perugia), sentitosi male al Cocoricò di Riccione lo scorso sabato dopo avere assunto una dose di ecstasy liquida.

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“I ragazzi, oggi, assumono ecstasy per ballare tutta la notte. Ballando, producono calore: la temperatura corporea aumenta fino a causare insufficienza renale. Intanto, l’ecstasy agisce direttamente sul sistema termoregolatore, che arriva a impazzire: la temperatura sale fino a 42, 43 gradi. A quel punto, non è più compatibile con la vita: si può solo provare a immergere la persona in una vasca di acqua e ghiaccio”. Se si assume droga, quindi, “è indispensabile bere molta acqua, fare qualche pausa dal ballo, per controllare la temperatura corporea. Immagino che il ragazzo non ci abbia pensato, che nessuno gliel’abbia detto, cosa ben più grave. Il caldo di questi giorni ha fatto il resto”.


A uccidere il ragazzo, dunque, potrebbe non essere stata l’ecstasy in sé, ma la sostanza assunta in quelle condizioni: “Non intendo assolvere l’ecstasy, ma serve dare un’informazione completa. E nessuno, sin qui, l’ha fatto: serve indagare sulle concause. Ecco perché la domanda corretta da porsi non è ‘chi è il pusher’, ma se ‘c’era acqua in discoteca’, se ‘c’erano degli operatori per informare su questi rischi’, se ‘c’era qualcuno che tenesse d’occhio la pista e portasse acqua a chi ballava da troppo tempo’.

Per Giancane, queste non sono domande surreali, perché qualche anno fa gli operatori erano in discoteca, distribuivano acqua: “Si chiama riduzione del danno. Oggi non si fa più nulla”. Il docente, autore di “Eroina. La malattia da oppiodi nell’era digitale”, registra, negli ultimi anni, un cambiamento di politica: “Siamo usciti dal solco tracciato dell’Unione Europea, da quasi 10 anni il Dipartimento delle politiche antidroga non parla più di riduzione del danno. Si punta solo sulla prevenzione primaria”. Il paradigma in base a cui si ragiona, spiega, è: “È vietato, quindi non deve succedere”. E se succede si arresta il pusher e si fa chiudere per qualche mese la discoteca. “Ma i ragazzi vanno avanti a drogarsi: troveranno un altro pusher, e un altro luogo dove farlo. Magari un baraccone abbandonato, ancora peggio”, prosegue Giancane.

La prevenzione primaria ha come obiettivo il prevenire il primo contatto con la droga: “Ma io la trovo irrealistica e non misurabile. Non ha mai funzionato. Quello su cui credo sia necessario investire è la prevenzione terziaria, vale a dire prevenire che un consumatore occasionale ne riceva un danno e sviluppi una dipendenza. Se fosse questa la strada del nostro Paese, il ragazzo sarebbe ancora vivo“.

Per questo, Giancane ritiene assurda la richiesta di chiudere la discoteca: “Avrebbe senso solo se venisse dimostrata una connivenza. Non si può pretendere che il personale del locale controlli tutti i clienti, è un lavoro da operatori ma purtroppo i fondi per questo scopo sono stati tagliati”. Chi lavora più sul mondo della notte? “La politica ha smontato l’80 per cento di quello che c’era, e funzionava, anni fa. Quanti passi indietro sono stati fatti. Accusavano gli operatori di dare suggerimenti su come assumere stupefacenti, li chiamavano ‘distributori di metadone’. Noi cercavamo solo di salvare delle vite. Ma chi avrà più la forza di ricostruire questa cultura distrutta?”, chiede ancora il docente.

Oggi, dice il medico, si sovvenziona solo la repressione, senza che nessuno alzi la voce per opporsi: “Da quanti anni la politica non chiede il parere degli operatori? Da 10 anni. Perché? Perché la risposta implicherebbe nuove e buona volontà. Sulla droga non si può partire da questioni morali: non esiste il giusto e lo sbagliato, non c’è il bianco e il nero, ma un’infinita serie di grigi. Chiedo che si prenda atto del rischio, che non lo si neghi. Il metodo repressivo di oggi è il più presuntuoso e deresponsabilizzante: il commento è sempre ‘Se l’è cercata’. Se invece si parlasse di prevenzione, riduzione del danno, se operatori nelle piste italiane facessero prevenzione, consegnassero acqua, suggerissero di prendere fiato ogni tanto, sarebbe una bella responsabilità, da garantire. Piaccia o no, è quella la strada: perché una tragedia come quella di Riccione avrebbe potuto essere prevenuta, e quindi evitata”.

(Dires – Redattore Sociale)

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