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Angelucci (Reama): “Non esiste una sola Africa ma tante, come i diritti”

La psicologa alla Dire: "Empowerment solo se si superano gli stereotipi"

Pubblicato:21-06-2021 13:22
Ultimo aggiornamento:21-06-2021 13:24
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reama
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ROMA – Quando si parla di Africa e di emancipazione femminile si rischia spesso, nel dibattito ‘di casa nostra’, di omettere dati culturali importanti e di alimentare stereotipi senza curarsi di differenze che hanno un peso grande nella consapevolezza e nell’esercizio dei diritti. Per entrare nella complessità delle questione l’agenzia Dire ha intervistato Augusta Angelucci, psicologa, che ha lavorato 18 anni nel Vecchissimo Continente e che oggi è nel Comitato scientifico della Rete nazionale antiviolenza Reama della Fondazione Pangea. “Ho vissuto per anni in Africa occupandomi di programmi di cooperazione allo sviluppo e risposte a emergenze complesse, ho imparato molto lavorando in cooperazione con donne e uomini autoctoni” ha sottolineato la psicologa.

“C’è l’Africa delle classi agiate che hanno studiato, spesso nelle migliori università del mondo e c’è l’Africa senza istruzione. C’è il Mali dove le persone sono espansive ed accoglienti e il Rwanda dove da montanari sono chiusi, ma se poi diventano amici lo sono per sempre”.

Angelucci, che ha seguito progetti di cooperazione delle Nazioni Unite e del ministero degli Esteri per 18 anni nel continente africano, da subito fotografa una situazione molto più articolata dell’Africa come spesso viene presentata, attingendo proprio dalla sua lunga esperienza sul campo. “Parlare del continente africano senza tener conto delle stratificazioni socio-economiche e culturali non aiuta a capire quali modelli di empowerment vanno innescati” ha spiegato. “Una donna algerina e una sudafricana sono diversissime” ad esempio, quindi va considerato anche “il relativismo culturale“.


“Ho lavorato per il Mae in Rwanda dopo il genocidio- ha ricordato- e il tema della violenza nella storia di molti Stati africani va inserito nel contesto della guerra. Parlerei di questo oltre che di violenza di genere: il corpo delle donne usato come bottino di guerra. In quegli anni abbiamo lavorato per la formazione delle donne per sostenerle a far parte della vita politica ed economica del loro Paese, ma anche nella formazione delle forze di sicurezza, corpi della polizia e dell’esercito, più inclusivi per le donne al fine di tutelare i diritti delle donne vittime di violenza. Abbiamo avviato microprogetti di riabilitazione, delle donne sopravvissute alla violenza, ma abbiamo anche lavorato sull’ambiente per promuovere l’human security ad esempio migliorando le condizioni delle strade, mettendo l’illuminazione e avvicinando le fonti di acqua a chi va a prendere l’acqua, le donne. Diminuendo così le varie occasioni di esposizioni ad aggressioni e violenze. Nelle aree di crisi post belliche le problematiche della salute riproduttiva, compreso il tema del l’aborto, vengono troppo spesso sottovalutate. Le vittime di violenza sessuale partoriscono figli dell’uomo che ha ucciso suo marito e reso i figli orfani del padre. Come si fa a parlare di processi di pacificazione facendo crescere un bambino nato dalla violenza di chi ha ucciso tuo marito ed i tuoi figli?”.

E sulla poligamia? “Ho conosciuto donne in aree rurali che dicevano ai mariti di prendere un’altra donna con la quale potevano condividere le fatiche per gestire i bisogni della ‘grande famiglia’” ha risposto Angelucci. Dunque accanto al relativismo culturale bisogna tener conto delle differenze sociali, del livello di istruzione e dell’autonomia economica delle donne, secondo la psicologa.

“Per l’educazione contraccettiva si parla di programmi per il distanziamento delle nascite, guai- ha precisato Angelucci- a chiamarli per il controllo, bisogna considerare l’alta mortalità infanto/giovanile e il ruolo dei figli per l’accudimento dei genitori anziani senza pensione ne servizi del welfare. Nelle famiglie agiate dei funzionari, l’emancipazione sociale ed economica delle donne ha ridotto il numero delle nascite ed eliminato le discriminanti di genere nel far studiare i figli”. Non ha dubbi la psicologa: “L’emancipazione non è nella pillola contraccettiva, ma nell’istruzione e nel miglioramento dei diritti fondamentali: accesso al cibo, ai servizi sanitari, all’istruzione per tutti. Parlare di Africa in accezione primitiva non ha senso”.
E anche sui matrimoni precoci, tema allarmante anche in Italia con il caso della giovane Saman: “Ci saranno- ha precisato Angelucci- magari nei villaggi rurali, ma è sempre legato agli ostacoli nell’accesso ai diritti fondamentali. Il contrasto alle violazioni del diritto alla vita e all’autodeterminazione per mano della legge patriarcale nelle popolazioni migranti, può avvenire se aiutiamo queste comunità a emergere dalle condizioni di invisibilità in cui vengono ghettizzate e facilitare loro la conoscenza dei diritti costituzionali in vigore nel paese di accoglienza. Le figlie ed i figli dei migranti possono diventare promotori di cambiamenti positivi per il contrasto alla violenza di genere all’interno delle loro famiglie se adeguatamente accolti e sostenuti nella rete dei servizi sociali ed educativi”.

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