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Lavoro, Nidil-Cgil: “10 milioni di lavoratori rischiano la povertà”

NIdiL CGIL scatta una fotografia che contribuisce a sfatare il mito della cittadella dei "garantiti" contro la sterminata marea dei "non garantiti"

Pubblicato:21-06-2021 11:54
Ultimo aggiornamento:21-06-2021 13:44
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ROMA – Sono circa 10 milioni i lavortaori precari in Italia che rischiano la povertà. E’ quanto emerge dalla analisi presentata oggi ed elaborata da NIdiL CGIL in occasione dell’incontro “La riforma che manca: il Lavoro” che si è tenuto al Centro Congressi Frentani di Roma, nell’ambito delle Giornate del Lavoro CGIL, Futura 2021. Presenti Nicolò Giangrande, Fondazione Di Vittorio, con lo studio su “La precarietà occupazionale e il disagio salariale in Italia. Le conseguenze della pandemia sull’occupazione e sui salari”; Andrea Borghesi, Segretario Generale NIdiL CGIL; Iunio Valerio Romano, Vicepresidente commissione di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, Senato; Romina Mura, Presidente commissione Lavoro, Camera; Maria Cecilia Guerra, Sottosegretaria Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Secondo NIdiL CGIL, la categoria sindacale che rappresenta lavoratrici e lavoratori atipici e precari, gli ultimi dati sul mercato del lavoro privato in Italia, quelli salariali del 2018 e 2019 con un affondo sullo stato dell’occupazione nel ’20, restituiscono una fotografia che contribuisce a sfatare il mito della cittadella dei “garantiti” contro la sterminata marea dei “non garantiti”.

Una lettura delle statistiche sulle diverse tipologie lavorative che tenga insieme, non solo gli aspetti retributivi ma anche le tutele sociali, evidenzia infatti come, la gran parte dei lavoratori italiani non è nella “zona verde” che produce le migliori condizioni possibili sia retributive sia sociali in quanto paghiamo anche un importante differenziale salariale con altri paesi europei, come dimostrato dallo studio della Fondazione Di Vittorio.


Se infatti una buona parte del lavoro dipendente a tempo indeterminato full time, circa 6,3 milioni di lavoratori, si trova comunque in una “zona bianca” con salari medi buoni (36mila € lordi)e buona copertura in termini di diritti previdenziali e sociali, il lavoro dipendente a tempo indeterminato ma part-time e quasi tutto il lavoro a termine, compresi i lavoratori in somministrazione con bassa discontinuità lavorativa, invece, già soffre salari più bassi (18 mila € lordi), coperture previdenziali e sociali di ridotta durata e portata: una “zona gialla” che comprende circa 4,4 milioni di persone.

Secondo Nicolò Giangrande, Fondazione Di Vittorio, infatti “dall’analisi delle dinamiche del mercato del lavoro italiano emerge come l’occupazione a termine, in particolare quella part-time, svolga la doppia funzione di “locomotiva” nei momenti di maggiore crescita occupazionale e di “ultima carrozza” nei momenti di maggiori difficoltà per il mercato del lavoro. I lavoratori più precari hanno pagato la crisi economica del 2008 e adesso pagano la crisi pandemica del 2020. Ancora più svantaggiata la quasi totalità dei lavoratori cosiddetti parasubordinati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la parte di lavoro subordinato soggetto a forte discontinuità, e le partite Iva individuali”.

Una “zona arancione” con salari o compensi bassi (sotto i 18mila € lordi) e ridotte coperture previdenziali e sociali, composta da oltre 4 milioni di lavoratrici e lavoratori. Infine, oltre 2 milioni tra lavoratori subordinati intermittenti e discontinui, di collaboratori autonomi occasionali, lavoratori sportivi e tirocini extracurriculari: una “zona rossa” con salari o compensi estremamente bassi (sotto i 10mila € lordi) e nessuna copertura previdenziale e sociale. La pandemia, da questo punto di vista, ha avuto un effetto disvelatore: per assicurare la copertura, seppur parziale ma preziosa, a milioni di lavoratori esclusi dalle forme classiche di sostegno al reddito sono state previste circa 20 differenti forme di indennità. Milioni di persone che, altrimenti, sarebbero rimaste senza sostegno perché a tempo determinato, perché autonomi o perché “invisibili” alle banche dati dell’istituto della previdenza sociale come i collaboratori autonomi occasionali o gli sportivi.

“Se tutto questo è vero, allora, – commenta Andrea Borghesi, Segretario Generale NIdiL CGIL – non possiamo uscire dalla pandemia esattamente come ci siamo entrati: precarietà, bassi salari, ridotte protezioni sociali per milioni di persone che ogni giorno contribuiscono con il loro lavoro alla ricchezza del paese e che nonostante ciò sfiorano o sono dentro l’area della povertà. Non abbiamo bisogno di ulteriore flessibilità o di riaprire ai licenziamenti ma di una riforma che abbia al centro il lavoro di qualità; tra quelle previste del PNRR non c’è e questo, visti i dati, è quantomeno singolare.”

“C’è da allargare il campo delle tutele- prosegue Borghesi- e puntare a portare tutti in zona bianca o almeno in zona gialla.” Per NIdiL CGIL, quindi, si deve intervenire sui fattori che creano questa situazione con interventi di riforma mirati, che riducano i gap esistenti: tipologico (troppe tipologie di rapporti di lavoro), salariale (compensi medi troppo bassi) e sociale (tutele scarse o nulle). Una situazione che riguarda i particolare i giovani sotto i 35 anni che vivono condizioni salariali e di tutela nettamente inferiore agli altri. L’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali affronta l’ultimo punto: un passo utile anche se non decisivo. Necessario, infatti, secondo il Sindacato degli atipici e dei precari, intervenire anche sul versante salariale/retributivo con una legge sulla rappresentanza che definisca i soggetti titolari della contrattazione (dei lavoratori e delle imprese) ed estenda il valore dei contratti da questi sottoscritti. Così si ridurrebbero i CCNL esistenti e si definirebbero le stesse regole per tutti, evitando la concorrenza sleale tra le imprese e le differenti retribuzioni tra i lavoratori. A sostegno di questo, la definizione di un salario minimo che faccia riferimento alla contrattazione ma che stabilisca anche un pavimento non sfondabile, non solo per il lavoro dipendente, e la definizione di parametri certi di riferimento anche per il lavoro svolto in autonomia, migliorabili poi con la contrattazione collettiva. Necessario anche intervenire sul versante tipologico/regolatorio con una riduzione delle tipologie lavorative esistenti: il mercato del lavoro italiano è troppo frammentato”.

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