NEWS:

Psicologa: “Prima arma contro gli stereotipi è sapere che sono automatismi”

Ne parla con l'agenzia Dire Elisabetta Camussi, professoressa associata di Psicologia sociale presso l'Università di Milano Bicocca

Pubblicato:21-03-2022 14:03
Ultimo aggiornamento:21-03-2022 14:05

uguaglianza di genere_donna_uomo
FacebookLinkedInXEmailWhatsApp

ROMA – Quando si parla di stereotipi, a partire da quelli di genere, “è molto comune dire che per scardinarli è necessario partire dalla scuola. Ma mentre lo facciamo dovremmo anche lavorare sul livello di consapevolezza che gli adulti hanno di quanto i loro automatismi mentali, sia da uomini che da donne, siano inconsapevoli. Divenire consapevoli di questo significa anche avere in mente che il genere di appartenenza contiene forme superiori o inferiori di privilegio”. A spiegare la complessità degli stereotipi e quanto profondamente essi influenzino i nostri comportamenti è Elisabetta Camussi, professoressa associata di Psicologia sociale presso l’Università di Milano Bicocca e presidente della Fondazione della professione psicologica Adriano Ossicini del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi.

Riguardo ai privilegi che l’appartenenza di genere riserva, la docente e ricercatrice spiega: “È il caso della ‘gender confidence’ di cui godono gli uomini: quella dimensione per cui ogni uomo sa di appartenere a una categoria che, indipendentemente da lui, gode di una posizione storicamente privilegiata. Questo fa sì che gli uomini si comportino di conseguenza, dando per scontata quella posizione e rinforzandola a propria volta a vantaggio di tutti. Di contro- tiene a sottolineare la psicologa- le donne nascono dentro un contesto in cui il livello di autostima è abbastanza basso e faticano a rinforzarlo da sole. Il basso livello di autostima femminile dipende dal fatto che il loro stare nella sfera pubblica, rifiutando di stare solo in quella privata, viene ancora percepito, anche a livello pre-razionale, come ‘stare fuori posto’, non è ‘essere nel posto giusto’. Questo le indebolisce sia per quanto riguarda sé stesse sia rispetto alle aspettative della realtà nei loro confronti”.

Ma cosa sono gli stereotipi?


“Gli stereotipi- spiega Camussi- sono dei modelli di organizzazione delle informazioni sul mondo appresi attraverso la crescita. Lo stereotipo di genere è uno dei modelli di organizzazione più semplici da comprendere perché l’apparente appartenenza al genere maschile o femminile è una delle prime informazioni che si registrano anche solo incrociando una persona per strada”. Questa ‘categorizzazione’ tuttavia “è molto disfunzionale perché noi non sottoponiamo la nostra prima impressione a una verifica, ma cerchiamo di forzare quello che abbiamo visto a stare dentro la nostra ipotesi, notando tutti gli elementi che la confermano e ignorando quelli che invece la disconfermano. Occorre intervenire sull’intero contesto sociale per modificare questi stereotipi- conclude- perché è vero che essi si formano durante la nostra crescita e il processo di socializzazione, ma sono poi alimentati in quanto atteggiamenti dalla maggior parte delle nostre esperienze di vita”. “Stiamo conducendo degli studi che rendono evidente come dei buoni processi di orientamento per essere tali devono partire dalla scuola primaria. È già da quel periodo, infatti, che si può iniziare a definire un pensiero sul mondo, sull’uso del tempo, sulla quotidianità, sul lavoro e su come si potrà essere parte della realtà”.

GIOVANI, CAMUSSI: “ORIENTAMENTO DEVE ESSERE ESERCIZIO SU PROGETTO DI VITA”

“Stiamo conducendo degli studi – evidenza Camussi – che rendono evidente come dei buoni processi di orientamento per essere tali devono partire dalla scuola primaria. È già da quel periodo, infatti, che si può iniziare a definire un pensiero sul mondo, sull’uso del tempo, sulla quotidianità, sul lavoro e su come si potrà essere parte della realtà”. Per la psicologa infatti l’orientamento “non deve essere solo banalmente il match tra le attitudini personali e i settori nei quali sono disponibili i posti di lavoro, ma deve insegnare a essere progettuali, ad avere un pensiero su di sé come di un soggetto che può stare nel mondo, fare delle cose, saper vedere sé stessi a distanza di 5 o 10 o 15 anni anche quando il proprio progetto di vita dovrà cambiare”.

Imparare a pensare a sé stessi nel presente e nel futuro, “è un esercizio molto produttivo che riduce la convinzione che sia la realtà a determinare totalmente cosa si è e cosa si può fare, così da essere più in grado di far fronte alle barriere e agli ostacoli che si incontrano, imparando come superarli o aggirarli- aggiunge la docente, sottolineando che- è un allentamento progettuale ancora più necessario per le donne che vivono più a lungo, hanno maggiori carichi di cura, sono soggette a frequenti ingressi e uscite dal mondo del lavoro, e per tutti questi motivi sono più esposte non solo alla non realizzazione, ma anche a maggiori rischi di povertà ed emarginazione”.

La psicologa sociale tiene tuttavia a chiarire che, sebbene sia sempre più necessario “sviluppare adattabilità proattiva alimentando le proprie risorse interne guardando quali aspetti della realtà sono nuovamente negoziabili, la responsabilità di tutto questo non ricade però solo sugli individui. Diciamo- chiarisce Camussi- che le persone possono fare molto per sviluppare e preservare nel tempo il proprio capitale psicologico, la resilienza, il coraggio, la fiducia, l’autostima, ma questo non può sostituire la costruzione collettiva di una società sostenibile, pena cadere nell’ottica americana del self made man e woman. Non bisogna perseguire una progettualità non ottusa, non innamorarsi di un’idea e perseguirla in modo acritico. Bisogna invece, tramite l’orientamento, sostenere nelle persone la possibilità di essere parte della realtà e del futuro, che vuol dire chiedere diritti, sollecitare che si negozino spazi di vita, che vengano riconosciute delle dimensioni che danno qualità alla nostra vita”, conclude. 

PNRR, CAMUSSI (UNIMIB): “ALTI LIVELLI DI COMPLICAZIONE FRENANO POLITICHE DI GENERE

Nelle intenzioni, il 30% delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) “sarebbe stato destinato a misure in favore delle donne, di varia entità e natura. Nei fatti sembra che questo raggiunga alti livelli di complicazione. Ad esempio, è stata fatta una battaglia per introdurre, già nel piano Colao e poi nel Pnrr, un aumento delle strutture per gli asili nido e quindi dei posti disponibili. Partendo dal dato del 23% circa di posti disponibili attualmente, si era negoziato di arrivare a un 30%. Ma siccome i fondi del Pnrr vengono erogati direttamente ai Comuni, gran parte dei soldi destinati alla realizzazione dei nuovi servizi rischia di non essere spesa, perché dentro le amministrazioni mancano le competenze per portare avanti le attività progettuali, realizzative e gestionali per raggiungere questo obiettivo”. Elisabetta Camussi approfondisce con la Dire le eventuali conseguenze sul lavoro femminile della mancata realizzazione degli obiettivi contenuti nel Pnrr.

“Tutto questo- spiega- impatta sulla possibilità per le donne di stare nel mercato del lavoro per l’enorme carico di cura che viene gestito tutto a livello familiare e per il quale i servizi sono altamente insufficienti. Inoltre, la carenza di asili nido impatta sulla capacità delle donne di mantenere il proprio lavoro quando diventa madre. Sappiamo infatti che ben una donna su due lascia il proprio impiego dopo la nascita del secondo figlio. Ma- precisa la docente- quando le donne lasciano il lavoro per occuparsi dei figli, spesso non scelgono tra due opzioni equivalenti e questo rimanda a un altro aspetto che si sperava di risolvere col Pnrr. Attualmente infatti, quando una donna decide di fermarsi dal lavoro finché i figli sono piccoli, dopo non ha quasi alcuna possibilità di rientrare. Queste difficoltà di ingresso, permanenza e reinserimento nel mondo del lavoro sono trasversali e riguardano tutte le donne, indipendentemente dal loro titolo di studio e dal loro livello di competenze professionali, a meno che non accettino lavori per cui sono sovraqualificate. Nel Pnrr si parla di ‘re-skilling’ e ‘up-skilling’, due bellissime parole ma- sottolinea la psicologa sociale- bisogna che si traducano in investimenti realmente fruibili dalle donne e trovino un buon riconoscimento da parte del mercato del lavoro”.

Nel Pnrr si parla, inoltre, di un sistema di certificazione della parità di genere: “È uno strumento che non serve tanto, direttamente, alle donne quanto alle aziende (e alle donne di conseguenza) che, con la legge sulla parità retributiva, sono chiamate, con un intervallo di tempo di due o quattro anni e attraverso le consigliere di parità, a una rendicontazione di quanto fatto in termini di politiche attive a favore della promozione dell’equità di genere. Per la prima volta, questo sistema di certificazione si traduce in una premialità o una defiscalizzazione o nella possibilità di accedere a bandi pubblici. Si tratta di un ‘bollino’- aggiunge Camussi- ottenuto attraverso dati reali, non solo con le dichiarazioni, che potrebbe incidere molto soprattutto sulla Pubblica Amministrazione e sulle piccole e medie imprese nelle quali è molto difficile spostare l’attenzione sulla dimensione dell’equità di genere”. Sul piano professionale, tiene infine a ricordare la ricercatrice, le donne sono svantaggiate anche a livello salariale.

“Il cosiddetto ‘gender pay gap’ è un divario che si evidenzia da subito. Le imprese infatti offrono salari differenti a seconda che si trovino di fronte un uomo o una donna, anche con uguali esperienze, titoli e competenze. Questo accade perché tendenzialmente si sa che le donne non negozieranno il salario offerto e, anzi, tenderanno ad accettare considerando un buon risultato anche solo l’aver ottenuto il lavoro. Un fenomeno- aggiunge Camussi- che si registra anche nei lavori inerenti le discipline Stem: secondo i dati Almalaurea, a 5 anni dalla laurea, un laureato guadagna comunque più di una laureata. Si tratta di una profonda contraddizione se pensiamo che si insiste tanto sulla necessità che le ragazze si avvicino alle discipline Stem, cercando di attrarle con le possibilità occupazionali, che sono superiori a quelle di altri titoli ma ancora non garantiscono il superamento del gender pay gap”, conclude.

Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it